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Palestina – attraverso confini e generazioni. Mariam Abu Dakka Zahira Kamal Lamya Naamneh Fatma Botmeh

Mariam Abu Dakka – 70 anni – Gaza

La incontro al termine del Forum delle donne a Gaza, il 6 giugno 2021. L’avevo già incontrata in un altro viaggio alcuni anni fa, una forte personalità.

Mariam Abu Dakka con Meri Calvelli – Gaza Forum delle Donne

Quali sono le tue opinioni su questo forum e quale pensi che possa essere il ruolo del femminismo per cambiare la situazione?

In primo luogo dico grazie al gruppo italiano che è venuto qui e che ci ha offerto la possibilità di scambio di pensieri, di opinioni…In tre giorni c’è stata una grande circolazione di esperienze; questo è utile anche per le associazioni palestinesi, incontrarsi e conoscersi. Importante per noi e per voi. Se ci conosciamo possiamo volerci bene. Di problemi ce ne sono molti, le donne hanno problemi, anche diversi tra loro. Qui il problema dell’occupazione è centrale, ne conseguono molti per tutti e per le donne moltissimi: distruzione di case, mancanza di assistenza sanitaria, mancanza di lavoro… Dobbiamo far fronte ad una cultura araba tradizionale dei nostri paesi e dobbiamo lottare contro il sionismo e l’imperialismo. Vogliono eliminare il popolo palestinese.

Le donne italiane possono andare dappertutto e possono portare la nostra voce, in altri paesi e sui mezzi di informazione. Importante per noi avere relazioni con tutte le donne nel mondo, anche spingerle a venire a Gaza.

Pensi che questo incontro tra donne, per lo più giovani, possa essere una spinta per il cambiamento?

Certo i giovani possono essere una spinta per il cambiamento. Abbiamo bisogno di nuovi leader, basta con la vecchia guardia. Ma alcuni della precedente generazione possono trasmettere le loro esperienze, trasmettere cultura e potere.

Per questo sono molto contenta che in questo forum ci siano tante giovani: capiscono immediatamente, hanno energia, conoscono la tecnologia meglio dei vecchi. Ma hanno bisogno anche del loro sostegno.

Ballo in una pausa del Forum delle donne – Gaza

Come donne palestinesi lottiamo su diversi terreni: ma è importante che il femminismo abbia un’ unica voce contro l’occupazione, contro Israele, per la democrazia.

Io ho lottato con uomini contro Israele, e anche per l’uguaglianza. Non posso essere libera senza liberare la mia terra. Dobbiamo lavorare insieme e lottare insieme, con tutte le donne nel mondo progressiste. E continuo la mia lotta per l’uguaglianza. Abbiamo grandi difficoltà e abbiamo bisogno di tutti per sostenerci.

La lotta delle donne è tripla: di classe, contro Israele, per l’uguaglianza. Autodeterminazione come donne e come popolo. Autodeterminazione vuol dire secondo me in primo luogo il rispetto verso se stesse, e lo sviluppo della cultura è essenziale. Se mi rispetto, se so dove stare, anche gli altri, gli uomini mi rispetteranno.

Per me la prima cosa è parlare con le persone, con le giovani donne, io ho scelto dove ogni volta dove stare: nel militare, nel sociale, nel politico. Parlo con tutti i media, per me e le altre donne, come palestinese. Mi amano perché parlo per tutte, la lotta si fa insieme, per la Palestina, contro Israele, non per questo o quel partito o fazione.

Cosa fai adesso? Quali sono i terreni su cui agisci, oltre quello dell’occupazione?

Lavoro dappertutto, con prigionieri, nel campo economico, per la lotta nazionale

Molto importante per la lotta è l’unità interna dei palestinesi. La lotta interna ci uccide, è una competizione distruttiva, molto maschile. Le donne, che hanno l’esperienza della maternità, della cura, possono svolgere un ruolo molto utile.

Io voglio scrivere la mia storia: 55 anni di lotta. Ho 70 anni, ho molto da raccontare!

Lamya Naamneh – Assiwar Feminist Arab Movement – Haifa

Lamya Naamneh con sua figlia – Haifa

Incontriamo Lamya nella sede della Associazione Assiwar

Dicci qualcosa di te, per cominciare Lamya

Sono nata nel 1971 in Galilea, in uno dei villaggi arabi in rivolta, quando nel 2000 vennero uccisi due ragazzi.

Considero la mia famiglia speciale, per il grande amore che mi hanno trasmesso per la giustizia. Siamo tre sorelle e due fratelli. Dopo la morte di mio padre “ho scoperto” mia madre, il suo femminismo spontaneo, non accademico e ho imparato ad apprezzarla.

Io ho subito molte molestie sessuali: ero anti uomini, anti matrimonio, con un netto rifiuto del sistema patriarcale. Dalla famiglia ho preso molti valori, tra cui il rispetto e l’ascolto di tutti, anche di tutte le religioni.

Mi sono impegnata presto nel lavoro sociale

Hai sempre vissuto in famiglia?

Fino a 35 anni, anche con un fratello. Lavoravo con rifugiati, in particolare in Chad con i rifugiati del Darfour nel 2006. Ho avuto molestie sessuali anche dal direttore della Ong.

Nel 2007 sono tornata, in Israele arrivavano molti rifugiati dall’Africa. Per aiutare ho speso molti dei miei soldi. In Chad ho conosciuto l’uomo che è diventato mio marito, veniva dal Congo. Abbiamo una figlia di 13 anni: Nadira (l’uguale), stesso nome di mia madre.

Nel 2007 ho cominciato a lavorare con Assiwar, che esisteva dal 1997 come associazione palestinese indipendente di donne, molto attive contro violenza e molestie sessuali.

La vostra lotta è quindi contro il patriarcato?

Certamente, ma non solo. Prendiamo un piccolo contributo dal Ministero della salute, ci contattano da tutta la Palestina e ci sono molte volontarie, arrivano anche dal Golan

Nel 2019 abbiamo condotto una campagna contro la violenza sulle donne: me too campaign dove venivano fatti anche i nomi dei molestatori. Personaggi come Jafar Farah, direttore del Mossawar Center, un’altra ha denunciato le molestie di un deputato della Knesset, Jamal Zaalka. Ma non tutte le femministe hanno sostenuto questa campagna, dove l’importante era non solo dire pubblicamente i nomi dei molestatori, ma essere protagoniste di una lotta che riguarda tutte le donne. Per me è stata fondamentale…

Jafar è stato portato in tribunale, ma i 6 giornalisti che avevano raccontato il caso, dopo tre mesi l’hanno ritrattato.

Ad agosto 2020 ho avuto un crollo, ho lasciato Assiwar. L’anno dopo ho incontrato in un caffè tre donne che si congratulavano con me per quella lotta e si lamentavano che avessi lasciato Assiwar. Una mi ha parlato di Mossawar e delle molestie subite. Sono tornata.

Si sono formati Centri antiviolenza gratuiti. Ad Haifa ce n’è uno.

Lavoriamo anche con il movimento Tal’at e abbiamo manifestato contro Jafar Farah, ma lui ha detto che era una storia inventata da una ragazza per vendicarsi.

Il problema ad esempio nelle Università è che non riferiscono come dovrebbero ad una Commissione della Knesset. 100 Università hanno riportato 0 casi, quando sappiamo che nell’anno sono stati 289. Ci sono 300000 studenti. Anche i prof. non collaborano, anzi. Ad esempio una prof ha preso le difese di un prof di teatro accusato.

Parliamo ancora un pò di quello che succede in Palestina, dell’ occupazione, delle violenze dei coloni e dei militari israeliani. E la conclusione la dice una giovane, Lorena, che nel frattempo si è unita a noi: “Non ci serve la pace, ma la giustizia”.

a cura di Alessandra Mecozzi

Zahira Kamal

Zahira Kamal – Gerusalemme

Quando ero ministra delle donne (Minister of Women Affairs) ero riuscita ad alzare gli stipendi che allora erano davvero molto bassi e di questo sono fiera…

Ora guardo tutte queste giovani donne che vengono da fuori e fanno ricerca, ma la fanno per se stesse e si portano via i risultati. La ricerca deve essere fatta dall’interno, deve essere una cosa locale… Sta diventando un disastro, non c’è autonomia del lavoro intellettuale. Parlano di colonialismo russo in Ucraina, ma il colonialismo israeliano non lo vedono. I donatori stessi sono colonizzatori …

Ma noi ancora viviamo in apartheid e nell’abbandono più totale… anche la città, le strade sporche: gli israeliani dicono che è colpa degli arabi,ma non è così… le strade si svuotano dopo le sei di sera, la città è morta… Ora i cristiani rimangono perchè hanno visto che c’era un progetto di espellerli a cui si doveva resistere”

Frammenti di un discorso fitto e appassionato, un fiume di racconto e di emozione che sembra smarrito in un eccesso di storia e di esperienza, quella di una vita fatta di attivismo politico attorno ad un unico tema: l’autonomia della Palestina, delle menti e delle vite di pochi milioni di persone in una piccola strisca di territorio.

Zahira è stata una delle fondatrici e poi presidente di un piccolo partito, il FIDA, Unione Democratica Palestinese, ha partecipato agli accordi di Oslo, ha diretto il centro di ricerca dell’Unesco ha fondato ASALA, con le donne imprenditrici, ha curato pubblicazioni, ha rappresentato la Palestina in tanti consessi internazionali.

Ora è vicina agli ottanta. E’ una donna ancora accesa di una passione, la politica, che ha dato senso alla sua vita, ma che non l’ha sorretta in mezzo ai piccoli crudeli conflitti di potere da cui si è sentita ferita quasi mortalmente.

Qualcosa è andato storto negli ultimi anni nella direzione di FIDA e Zahira ha avvertito una emarginazione che non era pronta ad accettare.

Parla di tradimento, ma si sente tradita anche da se stessa per come le forze si sono affievolite, per come ha perso la voce e l’energia per fermare quel che chiama uno “slittamento della politica verso destra”.

..”La politica… Ne ho avuto abbastanza. Non c’è niente di nuovo, solo ripetizioni.. I giovani non ce la fanno a sopravvivere, noi dovremmo fare del nostro meglio per aiutarli, dovremmo incontrarli…

Siamo stati al centro per tanto tempo, ora tocca alle nuove generazioni..la società si sta spostando verso l’estrema destra… ma questa generazione è ancora forte, non scappano, tengono testa a Israele, ma sono anche critici nei confronti dell’OLP…

Non mi sento più forte.. se vado a una manifestazione ho paura di cadere.. per sette anni sono stata con mia madre malata..In fondo sono tornata alla famiglia e all’amore, quello dei legami vicini.

FIDA, il mio partito, era critico verso il governo

Ma se mi si conosce, non è perchè ero la presidente di FIDA, ma perchè ero nota come persona a livello nazionale, perchè ero io.. e se ho fatto delle cose non è certo perchè è stato l’”occidente” a manovrarmi dentro un sistema coloniale, perchè io ero libera….

come altre donne nel mondo, in Irlanda, in Africa, in India che lavorano per la pace..quelle del film “Naila and the Upraising” di Julia Becha…”

Rievochiamo gli anni della sua esperienza come ministra e poi in Unesco e le sue case, a Beit Hanina e a Jerico. E poi torna sempre di nuovo sulla perdita del “suo partito”. Quella che altri raccontano come una storia si avvicendamento politico, per lei è una perdita, forse un “tradimento” che si trasforma in un “dolore immenso, irreparabile senza possibilità di riscatto o di consolazione”. ….La perdita di autonomia di quel suo partito è per lei la distruzione del senso di una vita..

Aver perso la politica nella forma in cui l’aveva praticata per tutta la vita: una causa, una organizzazione, un sistema di valori, una comunità, un territorio e il mondo intero a cui parlare, questo è un dolore devastante.

E’ stata una immane sofferenza. Per che cosa? Ne valeva la pena? Oggi la mia risposta è no.

Zahira è stata una figura pubblica . Compare in wikipedia e circolano ancora sue interviste sul web, ma il finale per lei tragico della vita pubblica e militante vissuto come una espulsione, non è rappresentabile per lei. Quando racconta è lucidissima, la voce chiara e vibrante: ma è la storia in sé che non si lascia raccontare se non rischiando di “tradire” l’immagine della Palestina mostrando la crudeltà dei giochi di potere politico che fanno vittime. In fondo una storia comune non solo in questa terra. Vite intere che si sono consumate nell’attesa, attiva e combattiva, che prevalessero la ragione, i diritti, le verità di una parte sempre più invisibile e cancellata. Quando Zahira dice di voler ritornare agli “amori” vicini, alla comunità degli affetti e ritrova le sorelle e le amiche di una vita, sta salvando questo filo rosso della sopravvivenza di chi non si arrende a una storia di oppressione e ingiustizia e rivendica il diritto di pretendere che rimanga aperta una via. Per noi vale la pena e l’impegno di darle ascolto. Vuol dire evitare i giudizi delle sintesi frettolose che, dichiarando una storia e una “causa” perdente, cancellano le storie delle vite che hanno vinto la sopravvivenza e il diritto al ricordo.

a cura di Gabriella Rossetti

Fatma Botmeh – Esperta di formazione e programmazione

Fatma Botmeh – in casa a Betlemme

Il 31 maggio 2019, nell’ultimo incontro che abbiamo avuto a Ramallah prima della chiusura per Covid, era piena di dubbi che condividevamo. Parlando di quel che facevamo convinte in modo diverso di sostenere le donne palestinesi con le nostre ricerche e interviste, lei riassumeva così il nostro comune disagio: “Ciò che per noi è un lavoro, per loro è la vita ” Che persona misteriosa questa Fatima, annotavo allora. Sa di avere “una strategia”. Non ne parla, ma dice di saperlo. Una strategia che le permette di stare in disparte in un gruppo e lasciare che le persone si prendano il loro spazio. Lei si riserva di condurre il gioco verso mete piu alte in seguito.

Si chiedeva da tanto tempo quale fosse “il rapporto tra gli uomini e il gender”….. “Dicono che sono davvero stufi,che non se ne puo’ piu’ , che il gender e’ una faccenda che riguarda le donne picchiate e violentate che vanno messe nelle case di protezione. Di fronte ai problemi che vengono dagli attacchi degli israeliani degli insediamenti che abbattono le case e cacciano gli abitanti, stiamo li’ a perderci dietro queste cose? Gender comunque e’ solo una faccenda di workshops e workshops e workshops …. soldi buttati via. Va bene che le donne guadagnino ma questo non richiede certo tanti sprechi di ricerche e needs assessments.” E’ a queste opinioni che dobbiamo rispondere, diceva Fatima. Non è facile.

Un altro problema, secondo Fatima, è “La macchina burocratica delle amministrazioni a tutti i livelli che paralizza ogni realizzazione di strategia. Bisognerebbe saltare i passaggi e arrivare subito al dunque. Inserimenti nel lavoro di giovani da fare subito: con i centri Tawasol si era cominciato con un gruppo i ragazze giovani con diverse qualifiche professionali. Stage e sul lavoro di formazione… . al primo posto deve esserci la vita delle donne a cui ci si rivolge : non hanno tempo per fare trainings lunghi che non garantiscano un lavoro, al centro ci devono essere i loro tempi di vita. Capire che quello che per i formatori è un impiego retribuito, per le donne è la loro vita, una esistenza colma di presenze e di impegni di cura. Le offerte di formazione concentrate prima di un eventuale lavoro non fanno che gratificare i formatori. Senza contare che non ci sono progetti di cooperazione che sopravvivono dopo le formazioni. Grandi inaugurazioni e subito dopo tutto finisce…… Il progetto della cooperazione italiana di usare i centri delle donne detti Tawasol per fare confluire tutte le agenzie di genere per una piattaforma di ingresso nel mercato del lavoro era la strada da percorrere. Ma non se n’è fatto niente..”

Fatma ha lasciato il ministero delle donne dopo 10 anni perché “non vedevo l’effetto in concreto del mio lavoro”. Si mette a lavorare per i “privati” e anche per le istituzioni (Governo della West Bank) diventando una contesa esperta di valutazioni di genere di progetti e programmi. “Non potevo più respirare. Ero come un pesce preso in una rete..” Oggi, nel 2022,in questo momento della sua vita, dice che sta tornando a galla, dopo la perdita di due fratelli e altre tragedie famigliari. Con il nuovo lavoro ha modo di scoprire aspetti della società palestinese che sono ignorati dai progetti e dalle ricerche che selezionano le associazioni più politiche. Fa gender audit per ILO in tutta la regione, compresa la Giordania; lavora con Giz nella valutazione dei programmi.

“Teneteli insieme ragazzi e ragazze, nessuna lista di sole donne, in nessuna parte del mondo”. E’ sbagliato mettersi da parte e separarsi… La capacità di reazione è cambiamento, la capacità di agire quando sei in un angolo e reagisci.”. ..Parla della Palestina e di sé stessa. Una cosa che avviene di frequente tanto che a volte sembra che le vicende “private” vengono quasi modellate nello schema di quelle “nazionali” con il risultato di dare nello stesso tempo forza alle situazioni di crisi, ma anche di aprire su “una luce”, come dicono in molte, che è il futuro. Tamkeen e Tawasol (empowerment e comunicazione) sono i due progetti che Fatima ha seguito dall’inizio, nel lontano 2003 con Zahira Kamal ministra delle donne nel governo della West Bank. “Un tesoro che è stato sotterrato, nascosto sotto terra, mentre nelle zone alte ci si litigava su chi doveva appropriarsene”. “Per me allora la “comunicazione (Tawasol) è stato parlare con le donne e scoprire quanto sapevano”. …. “Se penso agli israeliani mi dico che non voglio essere come loro. Sono avvelenati e ci avvelenano. Se penso a Shireen (la giornalista uccisa pochi giorni fa) piango per giorni senza tregua… “Per me tutti sono come Shereen donne e uomini…Che cosa è la giustizia?… Penso che la giustizia sia una parte di tutti gli esseri umani e se ti “strappi” il senso della giustizia diventi un mutilato…. Sull’ Ucraina tutti perdono, non c’è modo di dire chi vince e chi perde in una situazione come quella”.

Questa è una storia di successo di cui Fatima si attribuisce in parte il merito. Ora è stata chiamata per fare “gender audit” nelle più alte ed esclusive negoziazioni politiche. Si guarda intorno: dalle finestre della sua bella casa all’ultimo piano di un nuovissimo condominio di Ramallah si vedono campi e prati ancora verdi. “Sì, questo sembra il frutto del mio lavoro”. Una macchina (che guida con sicurezza) e questa casa in cui ogni tanto ospita la madre di 85 anni (“ha avuto 11 figli lei e io nessuno: sto bene così”) e le zie del villaggio vicino a Betlemme in cui loro, dice, custodiscono le sue radici. “Ma il vero frutto è una altro, dice, “ è che ho ancora la sensazione di fare qualcosa di utile per le donne palestinesi e di tutte le storie che mi si sono affollate nella memoria in questi venti anni e sono qui da raccontare se mai ci riuscirò”. Fatima te lo auguriamo, di cuore. Scrivi. Abbiamo ripercorso insieme quel che ricordiamo dei nostri tanti incontri negli ultimi 15 anni.

Fatima non si è persa d’animo, una volta constatati questi limiti e la distanza tra le donne coinvolte, nei progetti, le motivazioni diverse e le differenze di collocazione sociale, culturale e politica. “Ho scelto di fare del mio meglio e di non abbandonare mai la passione che mi ha fatto uscire prima dal villaggio vicino a Betlemme, poi dal ministero delle donne, quindi di volta in volta da tutti gli altri “esperimenti”, uno dopo l’altro, ora li vedo come un grande tesoro che si è accresciuto nel tempo e ha anche cambiato la mia vita. Forse anche quella della mamma e delle sorelle che non capiscono bene che cosa ho fatto, ma sono fiere di me”.

a cura di Gabriella Rossetti

PalestinaCeL

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