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Troppo a lungo in esilio

Il 14 febbraio 2021 la Bbc ha annunciato la morte di Mourid Barghouti, poeta e scrittore palestinese di 76 anni. Qui riportiamo la recensione al suo libro più famoso (l’unico tradotto in italiano!) fatta da Edward Said, altro grande scrittore palestinese

Prima di morire l’anno scorso (New York 25/9/2003), Edward Said ha scritto questo tributo molto personale a un libro di memorie del poeta palestinese Mourid Barghouti, “Ho visto Ramallah” che viene pubblicato nel Regno Unito la prossima settimana*

Immagine 1 - HO-visto-Ramallah-romanzo-in-arabo

di Edward Said da The Guardian 28 febbraio 2004

Questa narrativa compatta e intensamente lirica di un ritorno dall’esilio prolungato all’estero a Ramallah in Cisgiordania nell’estate del 1996 è uno dei più bei resoconti esistenziali dell’esodo forzato palestinese che abbiamo ora. È di Mourid Barghouti, un noto poeta sposato con Radwa Ashour, illustre accademica e romanziera egiziana; i due erano studenti di letteratura inglese insieme all’università del Cairo negli anni ’60, e per un periodo di 17 anni durante il loro matrimonio hanno vissuto separati l’uno dall’altro, lui come rappresentante dell’OLP a Budapest, lei e il loro figlio Tamim al Cairo, dove è professore di inglese all’università di Ain Shams. Le ragioni politiche della separazione sono accennate in I Saw Ramallah, così come le circostanze del suo esilio dalla Cisgiordania, e come il suo ritorno 30 anni dopo.

Ampiamente ed entusiasticamente accolto in tutto il mondo arabo quando è apparso nel 1997, il libro ha vinto la medaglia Naguib Mahfouz per la letteratura. Avendo fatto anch’io un viaggio simile a Gerusalemme (dopo un’assenza di 45 anni), conosco molto bene la mescolanza di emozioni – felicità, ovviamente, rimpianto, dolore, sorpresa, rabbia, tra l’altro – che accompagna un simile ritorno. La grande novità e il potere del libro di Barghouti è che racconta minuziosamente e dà chiarezza al turbine di sensazioni e pensieri che altrimenti travolgono in tali occasioni. La Palestina, dopo tutto, non è un posto normale. È intriso di tutte le storie e tradizioni conosciute del monoteismo e ha visto i conquistatori e le civiltà di ogni area andare e venire. Nel 20 ° secolo è stato il sito di una lotta incessante tra gli abitanti arabi indigeni, che furono tragicamente espropriati e per lo più dispersi nel 1948, e un movimento politico in arrivo di ebrei sionisti, di provenienza in gran parte europea, che vi fondarono uno stato ebraico che, nel 1967, conquistò la Cisgiordania e Gaza, che in effetti ancora occupano.

Ogni palestinese oggi è quindi nella insolita posizione di sapere che una volta c’era una Palestina e tuttavia di vedere quel luogo con un nuovo nome, popolo e identità che negano del tutto la Palestina. Un “ritorno” in Palestina è quindi un evento inusuale, per non dire davvero pesante. La narrazione di Barghouti in un certo senso è stata resa possibile a causa del cosiddetto grottescamente”processo di pace”, tra l’OLP di Yasser Arafat e lo stato di Israele. Iniziato nel settembre 1993, questo accordo mediato dagli Stati Uniti non prevedeva una reale sovranità palestinese a Gaza e in Cisgiordania, né consentiva la pace e la riconciliazione tra ebrei e arabi. Ma ha permesso il ritorno di alcuni palestinesi dai territori del 1967 alle loro case, ed è questa felice occasione che fa scattare le scene di confine con cui I Saw Ramallah si apre.

Come Barghouti scopre rapidamente, l’ironia è che anche se ci sono ufficiali palestinesi al ponte sul fiume Giordano che separa il regno hashemita dalla Palestina, i militari israeliani sono ancora al comando. Come osserva conciso, “gli altri sono ancora padroni del luogo”. Tuttavia, sebbene sia un cittadino della Cisgiordania e possa fare la visita che narra qui così eloquentemente, la stragrande maggioranza della maggior parte dei palestinesi (circa 3,5 milioni) sono rifugiati dai territori del 1948 e quindi non possono tornare, nelle attuali circostanze.

Necessariamente, c’è una buona dose di politica nel libro di Barghouti, ma niente di questo è astratto o ideologicamente guidato: qualunque cosa emerga sulla politica deriva dalle circostanze di vita vissuta palestinese, che, il più delle volte, è limitata da restrizioni relative a viaggio e residenza. Queste due questioni correlate, mentre sono date per scontate dalla maggior parte delle persone nel mondo, che sono cittadini, che hanno passaporti e possono viaggiare liberamente senza pensare a chi sono tutto il tempo, sono straordinariamente pesanti per i palestinesi senza stato, molti dei quali in realtà hanno il passaporto ma, tuttavia, come milioni di rifugiati in tutto il mondo arabo, Europa, Australia, Nord e Sud America, portano ancora il peso di essere cacciati dalla propria terra e quindi “fuori luogo”.

Il testo di Barghouti è perciò pieno di problemi legati a dove può o non può stare, dove può o non può andare, per quanto tempo e in quali circostanze deve partire, e cosa, soprattutto, accade quando lui non c’è. Suo fratello Mounif muore di una morte inutile e crudele in Francia perché nessuno può (o vuole) raggiungerlo e aiutarlo. Personaggi importanti di importanza culturale come il romanziere assassinato Ghassan Kanafani e il fumettista Naji al-‘Ali anche hanno una presenza ossessiva nel libro, sono lì a ricordare che non importa quanto i palestinesi siano talentuosi e artisticamente dotati, ancora sono soggetti a morte improvvisa e scomparsa inspiegabile. Da qui anche il tono in certi momenti doloroso di questo libro, altrimenti esuberante e celebrativo.

Tuttavia ciò che conferisce a questo libro un timbro inconfondibile di profonda autenticità è la sua consistenza poetica e vitale. La scrittura di Barghouti è davvero sorprendentemente priva di amarezza o recriminazioni; non rimprovera né arringa gli israeliani per ciò che hanno fatto, né rimprovera la leadership palestinese per i bizzarri accordi che hanno concordato sul campo. Ovviamente ha assolutamente ragione di notare più volte che gli insediamenti punteggiano (e di solito deturpano) il paesaggio palestinese dolcemente ondulato e spesso montuoso, ma fa solo questo, oltre a notare che è un fatto scomodo con cui i presunti operatori di pace hanno a che fare, dal momento che luoghi come Ramallah e Deir Ghassanah sono indomabilmente, immutabilmente palestinesi.

E c’è un bel pò di ironia in gioco quando scava nell’etimologia del nome della sua famiglia. (Anche se non ho informazioni certe al riguardo, penso che i Barghouti costituiscano la più grande famiglia palestinese, con un numero stimato di componenti che arriva fino a 25.000), Non può sfuggire al fatto che sembra derivare dalla parola araba per “pulce”, e questo dettaglio umiliante conferisce stranamente alla narrazione ancora più umanità e intensità.

Perché la principale caratterisitca di I saw Ramallah è il racconto della perdita nel mezzo del ritorno e del ricongiungimento. “L’occupazione”, dice Barghouti, “ha creato generazioni di noi che devono adorare un’amata sconosciuta: circondata da guardie, da muri, da missili nucleari, da puro terrore “. Pertanto, nelle sue poesie e in questa prosa che accompagna il suo ritorno, cerca di abbattere muri, eludere guardie, accedere alla sua Palestina, che trova a Ramallah.

Un tempo tranquillo sobborgo giardino di Gerusalemme, Ramallah è diventata negli ultimi anni il centro della vita urbana palestinese. Ha una relativa autonomia, una discreta quantità di attività culturale e una popolazione in rapido aumento. Così è in questa Ramallah appena rinvigorita e riscoperta che Barghouti, lo scrittore esule ed espropriato, si ritrova di nuovo, solo per ritrovarsi continuamente in nuove forme del suo dislocamento “Basta che si attraversi una volta l’esperienza dello sradicamento, per essere sradicati per sempre”.

Così, nonostante la sua gioia e i momenti di euforia, questo ritorno narrativo in fondo rievoca l’esilio piuttosto che il rimpatrio. Questo è ciò che gli conferisce sia la sua dimensione tragica che la sua accattivante precarietà. L’eccellente traduzione di Ahdaf Soueif offre proprio questo timbro piuttosto speciale ai lettori di lingua inglese. In tal modo all’esperienza palestinese viene conferita umanità e sostanza in un modo nuovo.

© Edward Said. Versione rivista della sua introduzione al libro I Saw Ramallah by Mourid Barghouti (Bloomsbury, £12.99) 2004

Traduzione in italiano a cura di Alessandra Mecozzi

Il libro è stato tradotto in italiano e pubblicato da Ilisso Edizioni, 2005

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