Jehad Abusalim
La gabbia in cui Israele ha rinchiuso Gaza è una ricetta per provocare una catastrofe da coronavirus
L’arrivo della pandemia minaccia di trasformare Gaza in un luogo ancora più invivibile sotto l’assedio israeliano. Gli aiuti umanitari non bastano. I Palestinesi hanno bisogno di libertà.
Il Ministero Palestinese della Salute ha riferito oggi sui primi due casi di coronavirus nella striscia di Gaza. Per settimane il governo a guida di Hamas che ha governato il territorio sotto assedio dal 2007, ha preso serie misure per prevenire l’arrivo del virus nella striscia. Fino alla decisione di chiudere il proprio versante del passaggio di Rafah verso l’Egitto e del checkpoint di Erez verso Israele; centinaia di palestinesi che entravano nella striscia erano immediatamente messi in quarantena per assicurarsi che non presentavano sintomi della malattia . Tuttavia, queste azioni non tranquillizzano. Non è eccessivo affermare che la prospettiva di una diffusione del virus nella striscia di Gaza è terrificante. Quest’anno, il 2020, è l’anno in cui le Nazioni Unite e altre agenzie internazionali hanno predetto che la striscia sarebbe diventata “inabitabile”. Se si fosse protratto il blocco israeliano e l’isolamento conseguente della striscia, avvertivano, sarebbero crollati i servizi di base e la stessa capacità di sopravvivenza di Gaza.
Mentre lo spettro del coronavirus incombe sui due milioni di residenti Palestinesi, la metà dei quali sono bambini, il mondo deve affrontare una verità pressante: Gaza, che per tanto tempo è stata invivibile nelle condizioni attuali, lo sarà ancora di più ora che il virus ha raggiungo la sua popolazione.
Per anni le ONG internazionali e persino alcuni esponenti israeliani, hanno ammonito che il sistema sanitario di Gaza era sull’orlo del collasso, debilitato da decenni di impoverimento, di sottosviluppo e di assedio. Tutti i problemi causati dall’assedio israeliano sono intrecciati e ingigantiti nel settore sanitario: la grave mancanza di acqua e di elettricità, gli alti livelli di disoccupazione e la fragilità delle infrastrutture che si vanno distruggendo.
Allo stato attuale, il sistema sanitario di Gaza non è attrezzato per affrontare lo scoppio di una diffusione del COVID-19. Il numero totale dei letti a disposizione è di 2.895. 1,3 letti per ogni mille persone. Da 50 a 60 ventilatori per adulti. Secondo il capo del dipartimento del OMS a Gaza, Abdelnasser Sovoh, Gaza è in grado di gestire solo il primo centinaio di casi del virus; “Dopo, avrà bisogno di ulteriori aiuti”.
Il sistema sanitario è ulteriormente aggravato dall’ emigrazione di molti professionisti sanitari a causa della crisi economica. Più di 35.000 palestinesi hanno lasciato la striscia solo dal 2018 tra i quali dozzine di medici e infermiere. Un funzionario del Ministero della Salute ha dichiarato che avrebbero bisogno di almeno da 300 a 400 medici in più per colmare la mancanza del personale necessario e rispondere ai bisogni minimi della popolazione.
Un altro aspetto della vita a Gaza che può favorire una diffusione di massa del virus è la densità della popolazione. Secondo gli scienziati “una situazione di affollamento può aumentare la probabilità di trasmissione delle malattie infettive.” – e con una media di 6,028 abitanti per kilometro quadrato, Gaza ha una delle più alte densità di popolazione al mondo. Il sovra popolamento della striscia è superato solo da pochi altri luoghi come Hong Kong: ma mentre le persone possono andare e venire da Hong Kong, la maggior parte dei Palestinesi di Gaza sono ingabbiati contro la loro volontà.
Gli otto campi di rifugiati di Gaza hanno una densità di popolazione anche maggiore della media del territorio. Per esempio prendiamo Jabalia dove 140.000 palestinesi vivono in un’area di 1.4 kilometri quadrati, ovvero 82,000 persone per kilometro quadrato. Il campo ha accesso a solo tre cliniche e a un ospedale pubblico. Nel territorio subito al di là della barriera di confine con Israele, da cui provengono molti dei rifugiati Palestinesi, le densità vanno da zero a 500 persone per kilometro quadrato.

Alla luce della pandemia globale, queste condizioni di Gaza sono una ricetta per il disastro. Ma non sono il risultato di un qualche sfortunato incidente; sono il deliberato risultato di decenni di una politica israeliana disegnata e sostenuta coscientemente per produrre la disintegrazione di Gaza.
La maggior parte dei due milioni di Palestinesi che vivono nella piccola striscia oggi sono i discendenti di 200.000 rifugiati fuggiti o espulsi durante la guerra del 1948 che produsse la creazione dello Stato di Israele; questi rifugiati si unirono ai circa da 80.000 a 100.000 Palestinesi che già risiedevano nell’area a quel tempo.
Questi rifugiati erano convinti che la loro permanenza a Gaza sarebbe stata temporanea, ma Israele costruì rapidamente una barriera militarizzata per confinare i Palestinesi ed emanò leggi che resero permanente la loro condizione di sfollati. Tra queste la legge del 1954 sulla Prevenzione dell’Infiltrazione che bollava come illegale ogni tentativo da parte dei Palestinesi di ritornare alla loro terra, alla casa, alle loro proprietà. Molti Palestinesi che tentarono di raggiungere le proprie case furono uccisi dalle forze israeliane.
Quando Israele conquistò la striscia nel 1967, permise ai coloni ebrei di appropriarsi del 25 per cento del già esiguo territorio, incluso circa il 40 per cento della terra arabile. Fino al “disengagement” ( disimpegno) del 2005, per quattro decenni la presenza di coloni ebrei peggiorò il sovra affollamento della striscia e impedì ai Palestinesi di espandere la loro presenza nella striscia e aumentare le costruzioni. Da allora una serie di interventi militari israeliani ha decimato le case e disperso decine di migliaia di famiglie.
In poche parole, la striscia di Gaza si trova nella condizione attuale a causa della logica dell’espansionismo israeliano: l’ implacabile pressione per mantenere una maggioranza ebrea direttamente alle spese dei Palestinesi. Due milioni di Palestinesi sono intrappolati a Gaza non perché hanno scelto questa vita, ma perché sono stati costretti.
La minaccia del COVID-19 su Gaza è forse l’ultima opportunità per affermare quel che molti rifiutano di ascoltare: il problema di Gaza non è la mancanza di aiuti umanitari, per quanto questi possano essere urgenti. E’ un problema territoriale, demografico e politico. Riguarda chi, tra il Fiume Giordano e il Mar Mediterraneo, è privilegiato e chi no, chi riesce a vivere e a prosperare sulla terra e chi no.
Oggi, mentre Israele e i cittadini israeliani si godono la terra e le sue risorse, ai Palestinesi sono negati gli stessi diritti e viene loro impedito di tornare a casa nella loro terra. E mentre la comunità internazionale è concentrata sulla minaccia dell’annessione da parte israeliana degli insediamenti illegali nella West Bank , molti non si preoccupano della condizione disumana che la popolazione di Gaza sa sperimentando.
In questo periodo di pandemia e di preoccupazione per la salute di tante comunità in tutto il mondo, è venuto il momento di affrontare le conseguenze della ingiusta divisione della Palestina storica –che include Gaza.
In realtà Gaza racchiude molti dei problemi che affliggono il mondo: guerra, povertà, dispersione e razzismo. Ma offre anche barlumi di speranza, grazie alla sua umanità, resilienza e resistenza.
In questo momento- in cui le persone che vivono in paesi privilegiati possono solo lontanamente sperimentare una vita in condizione di reclusione, separati dai propri cari, insicuri sui proprio bisogni primari e preoccupati del nostro futuro collettivo- è fondamentale pensare a luoghi come Gaza, dove le persone hanno sofferto molto peggio per decenni e rischiano un colpo ancora più devastante ora che la pandemia ha raggiungo le sue spiagge.
Scrivo questo pensando alla mia famiglia a Gaza che, come molti altri, può presto cadere vittima del COVID-19. Anche se questo è il tempo di pensare alla sopravvivenza, è anche il tempo di porsi grandi domande su come noi tutti, come esseri umani, non siamo stati capaci di preparaci per questo momento. Se non è questo il momento di metter fine alla chiusura di Gaza e all’occupazione della Palestina, se non è questo il momento di affrontare le ingiustizie che hanno gettato nella sofferenza e nel dolore la vita dei Palestinesi, quando mai sarà?
traduzione Gabriella Rossetti
Jehad Abusalim è uno studioso e analista politico originario di Gaza. E’ membro del programma Attivismo Palestinese associato al Comitato dell’American Friends Service; attualmente studia alla New York University
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