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Elezioni o no, l’Autorità palestinese è ormai obsoleta

di Omar Karmi  Power Suits 2 Febbraio 2021 da Electronicintifada nella foto: la famiglia di Abu Shamsiyeh in Hebron si registra online per le elezioni 2021  Mosab ShawerAPA images

Il 15 gennaio Mahmoud Abbas, il leader dell’Autorità Palestinese, ha reso pubblici i piani per le elezioni nella Cisgiordania occupata e a Gaza. Chiamato, come appare, a rinnovare la legittimità popolare delle principali fazioni politiche, sanare la spaccatura Fatah-Hamas, in contrapposizione alle accuse di Israele, secondo cui Abbas non parlerebbe per tutti i palestinesi, la data del decreto era chiaramente collegato all’investitura di Joe Biden cinque giorni dopo. L’AP spera chiaramente che la nuova amministrazione statunitense rilanci gli sforzi di pace e rilanci le fortune di un organismo che è scaduto da tempo.

Le elezioni sono anche viste in alcuni ambienti come il modo migliore per superare una divisione che dure da 14 anni tra le principali fazioni, che molti ritengono una delle maggiori debolezze della scena politica palestinese. Ma ci sono buone probabilità che, nonostante il clamore intorno al voto, non succederà niente. E, anche se avviene, una confluenza di interessi tra Fatah e Hamas non sarebbe favorevole ad alcun cambiamento radicale tanto necessario alla politica o strategia palestinese.

Perché adesso allora?

Abbas è ansioso di stabilire le sue credenziali democratiche con la nuova amministrazione statunitense. Dopotutto, dalla sua elezione 16 anni fa e quattro mandati presidenziali, non ha più affrontato l’elettorato. Ha bisogno di una vittoria elettorale per rappresentare entrambe le aree del territorio occupato, aumentare la credibilità sua e dell’AP e migliorare le possibilità di cambiamento del rapporto con gli Stati Uniti che è sempre stato molto problematico per i palestinesi.

In realtà legate ai progressi nel processo di pace iniziato con gli accordi di Oslo nel 1993, le relazioni palestinesi-statunitensi sono state in grande misura ostaggio del Congresso degli Stati Uniti fermamente filo-israeliano. La legislazione antiterrorismo, sia prima che dopo Oslo, così come le disposizioni nei progetti di legge sugli stanziamenti che assicurano la supervisione del Congresso delle condizioni alle quali l’AP potrebbe ricevere finanziamenti statunitensi, in effetti concedono al legislatore il potere di determinare come l’AP dovrebbe spendere i suoi soldi, come può condurre le sue relazioni internazionali e come deve organizzare i suoi affari politici.

Se Abbas, o chiunque altro legato alla sopravvivenza dell’Autorità Palestinese e di un processo verso due stati, vuole fare qualche progresso, questo rapporto deve cambiare. È irrimediabilmente collocato contro la parte palestinese e a favore di Israele, che può sempre contare sui suoi numerosi amici al Congresso. E un leader palestinese con un nuovo mandato popolare potrebbe almeno premere per tali cambiamenti da una nuova Casa Bianca.

Tuttavia, anche se orientato così – e non ce ne sono prove – con priorità altrove, è molto improbabile che Biden sia interessato a caricare il Congresso per conto dei palestinesi. Quindi Abbas dovrà affrontare le elezioni senza promesse di qualche tipo da Washington se non forse una ripresa dei finanziamenti statunitensi. In effetti, il segretario di stato di Biden, Antony Blinken, ha già chiarito che la nuova amministrazione non rinuncerà alla politica di Trump su Gerusalemme, che, secondo Blinken, è la capitale di Israele e dove gli Stati Uniti manterranno la loro ambasciata.

Dietro le quinte

Privato di Gerusalemme, uno dei suoi principali assi politici, Abbas affronta così un elettorato dove è già profondamente impopolare. Un sondaggio di dicembre del Palestinian Center for Policy Survey and Research ha rilevato che più di due terzi degli intervistati desideravano che Abbas si dimettesse dopo aver annunciato la ripresa del coordinamento per la sicurezza con Israele sulla scia del voto presidenziale degli Stati Uniti. Lo stesso sondaggio ha anche rilevato che Abbas perderebbe le elezioni presidenziali contro il leader di Hamas Ismail Haniyeh. Questo, nonostante il modo in cui il partito Fatah di Abbas ha ottenuto un leggero vantaggio del 4% su Hamas per le elezioni del Consiglio legislativo palestinese.

Hamas potrebbe, ovviamente, decidere di non candidarsi alla presidenza. Non ha ancora annunciato se lo farà, e non lo ha fatto nel 2005, quando Abbas è stato eletto contro una lista di indipendenti e rappresentanti di partiti minori (sebbene Hamas non avesse ancora deciso di partecipare alle elezioni fuori delle urne comunali). Insistendo sul suo diritto alla resistenza armata, Hamas rimane anche su una serie di elenchi ufficiali di gruppi terroristici. Inclusi quelli degli Stati Uniti e dell’Unione Europea, da cui l’AP ha tradizionalmente attinto la maggior parte dei suoi finanziamenti.

La vittoria di Hamas nelle elezioni del 2006 ha indotto l’Unione europea e gli Stati Uniti a trattenere i fondi per l’Autorità Palestinese e ha contribuito a preparare il terreno per la violenta insurrezione a Gaza dell’anno successivo che ha portato alla divisione palestinese. I funzionari di Hamas potrebbero calcolare che questa volta il mondo potrebbe accettare un Consiglio legislativo palestinese in cui Hamas, se dovesse ottenere la maggioranza, potrebbe restare all’opposizione, ma potrebbe reagire se Haniyeh diventasse presidente.

In effetti, potrebbe non essere l’unico a fare questo calcolo. La divisione politica palestinese è profondamente impopolare e fonte di imbarazzo per la presidenza dell’AP. È anche, apparentemente, un ostacolo all’eliminazione delle restrizioni su Gaza (sebbene Israele molto prima che Hamas vincesse le elezioni e prendesse il controllo della Striscia di Gaza avesse rinnegato gli accordi mediati a livello internazionale sullo sviluppo di Gaza, in particolare l’accordo del 2005 su movimento e accesso).

In considerazione di ciò, non è escluso che le due fazioni abbiano raggiunto un accordo informale per garantire che, qualunque sia l’esito delle elezioni, l’Autorità Palestinese non sarà nuovamente tagliata fuori.

Prevedibili israeliani

Infatti, solo tre mesi fa, circolavano voci – rapidamente smentite – che Hamas e Fatah stessero considerando una lista comune per candidarsi alle elezioni. Tutto ciò presuppone, ovviamente, che le elezioni si svolgeranno effettivamente. Sia Fatah che Hamas si sono affrettati ad annunciare il loro sostegno ai sondaggi. Ma entrambe le fazioni hanno anche stabilito che la loro partecipazione dipenderebbe dal fatto che il voto si effettui nella Gerusalemme est occupata. Israele ha consentito un voto lì nel 2006, sebbene con gravi restrizioni alla campagna elettorale nella città dove i candidati affiliati ad Hamas erano proibiti.

Sembra altamente improbabile, tuttavia, che la costellazione di destra attualmente al potere – o che dovrebbe essere al potere dopo il voto di marzo di Israele – sarà così malleabile. Israele – essendo Israele – potrebbe quindi fornire facilmente sia a Fatah che ad Hamas una via d’uscita dalle elezioni. Questo, a sua volta, potrebbe andare bene per entrambe le parti, e non solo perché un voto non porrebbe allora nuovi ostacoli ai finanziamenti internazionali.

Fatah non dovrebbe rischiare un’altra perdita potenzialmente imbarazzante alle urne o un’ulteriore esposizione di divisioni all’interno del partito in cui i potenziali rivali dell’ottuagenario Abbas sono costantemente in agguato. Tra questi in particolare il leader di Fatah in carcere Marwan Barghouti – costantemente votato come il leader palestinese più popolare – o l’ex capo della sicurezza dell’Autorità Palestinese in esilio Muhammad Dahlan, a cui è stato esplicitamente vietato di organizzare la sua candidatura presidenziale.

Ciò andrebbe bene ad Hamas perché non dovrebbe trovare un modo per conciliare l’adesione alla resistenza armata con la partecipazione attiva nelle istituzioni ufficiali dell’Autorità Palestinese, la cui esistenza si basa sul coordinamento con gli stessi militari che intende combattere.

Quale legittimità?

Ma questo suggerisce anche che entrambe le fazioni possono convivere con uno status quo che è chiaramente disastroso per i palestinesi e la loro lotta. Questo rappresenta l’attuale stagnazione della scena politica palestinese in cui sembra che le fazioni siano apparentemente riluttanti a rischiare i pochi poteri che si sono assicurati nei loro piccoli angoli di Palestina per un bene più grande o una strategia politica di ampio respiro.

Forse il maggior significato potenzialmente sarebbe quindi il voto proposto per il Consiglio nazionale palestinese, l’organo legislativo dell’Organizzazione per la liberazione della Palestina e l’unica elezione che che si potrebbe dire che rappresenti tutti i palestinesi.

L’OLP rimane ovunque il rappresentante ufficiale del popolo palestinese. L’avvento dell’Autorità Palestinese negli anni ’90, tuttavia, ha visto sempre più l’accento posto su quell’ente come fonte di direzione politica e leadership. E l’erosione dell’importanza dell’OLP ha visto una conseguente erosione del ruolo dei palestinesi al di fuori della Palestina – poco più della metà di tutti i palestinesi alla fine del 2020, molti nei campi profughi dei paesi vicini.

Il PNC non si è riunito correttamente dal 1988, quando è stato l’organismo a emettere la Dichiarazione di indipendenza palestinese che ha annunciato il sostegno dell’OLP per una soluzione a due stati sui confini del 1967 e ha posto le basi per il successivo processo di pace – e il suo fallimento. Alcuni hanno sostenuto che rinvigorire l’OLP e ristrutturarla ben lontana dagli orientamenti delle fazioni per essere veramente rappresentativa del popolo palestinese è l’unico modo per districare la politica palestinese dalla sua attuale impotenza.

Ma sembra un’improbabile fonte di salvezza, dato che la stessa leadership dell’OLP non è interessata alle riforme. Più probabilmente, elezioni o non elezioni, è un periodo di normalità in quanto l’amministrazione Biden cerca di riparare alcuni dei danni causati da Trump, anche se non tutti. Questa calma non durerà, anche se una ripresa degli aiuti esteri offrirà un gradito sollievo umanitario.

Né l’amministrazione statunitense né alcuna leadership palestinese di nessuna fazione (per non parlare, ovviamente, di Israele, che nel frattempo sta felicemente arraffando sempre più terra) ha finora offerto un nuovo pensiero. E in assenza di nuove idee, la calma post-TrPerché adesso allora?ump sarà alla fine sostituita da uno sconvolgimento finale poiché l’ANP è alla fine consumata dalla sua stessa irrilevanza.

Traduzione a cura di Alessandra Mecozzi

PalestinaCeL

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