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Adesso siamo tutti di “un unico Stato”

L’argomentazione ideologica sul futuro di Israele e della Palestina nasconde il fatto che negli ultimi dieci anni abbiamo vissuto nella realtà di un unico stato.

Foto illustrativa di donne palestinesi in fila mentre cercano di passare attraverso il checkpoint di Qalandiya, che separa la città di Ramallah in Cisgiordania da Gerusalemme. Issam Rimawi / Flash90 per +972 Magazine

Negli ultimi giorni prima delle seconde elezioni israeliane del 2019, il primo ministro Benjamin Netanyahu ha annunciato una conferenza stampa speciale. La speculazione era alta: il primo ministro stava per dimettersi e combattere le accuse penali contro di lui in tribunale? Avrebbe annunciato il tanto pubblicizzato patto di mutua difesa con gli Stati Uniti? Gli assistenti di Bibi hanno invece segnalato che aveva qualcosa di ancora più grande in serbo per tutti.

La rivelazione è giunta il giorno 10 settembre: quella sera Netanyahu ha promesso di annettere la Valle del Giordano, nel profondo dei territori occupati, a Israele. Ha pronunciato il suo discorso accanto a una grande mappa della Cisgiordania orientale, che di tanto in tanto indicava con un puntatore.

“La Valle”, come viene chiamata in Israele, è la regione meno popolata della Cisgiordania. Consiste di una città palestinese, Gerico, e di numerose comunità più piccole. È anche sede di diversi piccoli insediamenti non ideologici. Tuttavia, secondo la maggior parte delle mappe, la Valle del Giordano costituisce tra un quarto e un terzo della Cisgiordania. In passato, quindi, una dichiarazione sulla futura annessione avrebbe provocato una tempesta politica in Israele, poiché avrebbe significato la morte della soluzione dei due stati, la fine dell’occupazione “temporanea” e l’inizio di una nuova era nel conflitto. Per molti, avrebbe significato la fine della democrazia israeliana.

Non oggi, però. Le parole di Netanyahu sono state accolte con uno sbadiglio collettivo. La stessa cosa è successa diversi mesi dopo, quando il primo ministro ha cercato di sfidare i suoi principali avversari, il partito bianco e blu di Benny Gantz, a unirsi a lui nel sostenere l’annessione. A nessuno importava.

Ramat Gan, 10 settembre 2019. Il primo ministro Benjamin Netanyahu si trova accanto a una mappa della Valle del Giordano occupata durante una conferenza stampa prima delle seconde elezioni del 2019. Hadas Parush / Flash90 per +972 Magazine

Parte del motivo di questa scarsa reattività è che tali affermazioni, fatte la sera delle votazioni finali, vengono sempre prese con le pinze. Ma qui è in gioco ben altro: da tempo Israele tratta la Cisgiordania come se fosse sua (e soprattutto il 60% del territorio occupato su cui l’Autorità Palestinese non ha potere). L’annessione in tale contesto significherebbe solo aggiungere formalità giuridica a una situazione a cui tutti sono abituati già da molto tempo.

In pratica, Israele ha già annesso la Cisgiordania. Ha il monopolio sull’uso della violenza nel territorio, sul suo spazio aereo, su chi entra ed esce, sulla sua moneta e sul controllo della popolazione. Israele estrae risorse naturali e vi scarica i suoi rifiuti, costruisce insediamenti per ebrei e rifiuta qualsiasi autorità legale tranne la propria.

Questi elementi sono stati cementati tutti nel decennio precedente. I tentativi di sfidarli, attraverso il processo diplomatico o le proteste popolari, fallirono miseramente. Israele è riuscito anche a contenere la violenza. Il vecchio assioma che “lo status quo è insostenibile” è stato ormai smentito.

Un altro assioma sosteneva che Israele non può essere un occupante e uno Stato democratico allo stesso tempo; che avrebbe bisogno di rinunciare a uno dei due: democrazia o territorio. Anche questo è stato smentito: il mondo riconosce Israele come una democrazia e come un membro legittimo del mondo occidentale (dove alcune critiche a Israele e al sionismo sono state addirittura bandite). Gli stessi israeliani credono di vivere in una democrazia e, quando non lo fanno, il motivo ha a che fare con la corruzione, la mancanza di buon governo, il potere della magistratura o i casi legali di Netanyahu. Quasi nessuno lo attribuisce al fatto che il 40% della popolazione sotto il governo israeliano è privata dei diritti civili fondamentali o della rappresentanza politica.

Per l’estraneo alla questione, sembra che l’ultimo decennio sia cambiato molto poco riguardo al conflitto. Ma la verità è che qualcosa di molto sostanziale è effettivamente accaduto: questo è stato il decennio della soluzione di uno stato unico. L’argomento ideologico tutt’oggi scottante tra la soluzione di uno Stato unico e la soluzione a due stati nasconde il fatto che in pratica siamo tutti in un unico Stato; ulteriori idee sono completamente ipotetiche.

Cisgiordania, 23 agosto 2019. Un soldato israeliano si mette in ginocchio vicino a un manifestante palestinese nel villaggio di Kfar Qaddum, vicino a Nablus. Nasser Ishtayeh / Flash90 per +972 Magazine

La democrazia israeliana consiste in una struttura permanente composta da due sistemi di governo: uno per i cittadini israeliani (compresi i cittadini palestinesi di Israele) e un altro sistema autoritario per i non cittadini palestinesi. Le persone discutono se questo sia il risultato di una pianificazione avanzata oppure di una mera coincidenza storica. Indipendentemente dalla risposta, non c’è dubbio né sull’esistenza né sulla sorprendente capacità di recupero di questo modello.

L’occupazione va avanti da quasi 53 anni e l’Autorità Palestinese è nata 25 anni fa. L’età media in Israele è di poco inferiore ai 30 anni; a Gaza è sotto i 20. In altre parole, questa è l’unica realtà che la maggior parte degli israeliani e dei palestinesi conosce: la realtà dello stato unico.


Credo che il segreto del lungo periodo di Netanyahu come primo ministro, il più lungo nella storia di Israele, sta tutto nella sua capacità di promuovere lo status quo come soluzione preferita al conflitto. Come ho sostenuto in precedenza, lo status quo è il male minore per gli israeliani, dal momento che non richiede loro di passare attraverso il doloroso processo di fare concessioni territoriali o di incorrere in cambiamenti molto più drammatici che un singolo stato democratico potrebbe portare. Israele potrebbe rimanere relativamente sicuro e prospero pur mantenendo la maggior parte della popolazione palestinese sotto una dittatura militare. (*)

Lavoratori edili palestinesi si dedicano ai lavori di una parte del muro di separazione tra il blocco di insediamenti di Gush Etzion e Gerusalemme, 7 luglio 2011. Nati Shohat / Flash90 per +972 Magazine

Netanyahu, e in seguito altri della destra israeliana, hanno capito che quando il mondo ha condannato l’occupazione, li stava minacciando in realtà con una pistola scarica. Nessuno negli Stati Uniti o nell’Unione Europea, figuriamoci in altri paesi, era interessato a investire il tipo di risorse necessarie per spingere Israele fuori dalla Cisgiordania e stabilire uno stato palestinese indipendente.

Dopo la primavera araba, quando la stabilità e la sicurezza regionali sono diventate la principale preoccupazione di tutti, qualsiasi motivazione rimasta per cambiamenti radicali è evaporata e il mondo è stato più che felice di aiutare a mantenere lo status quo. Lo ha fatto finanziando l’AP; addestrando le sue forze di sicurezza; consentendo e persino mantenendo il blocco su Gaza e le operazioni militari che andarono di pari passo con l’assedio; (**) e spostando la diplomazia dalle istituzioni internazionali come l’ONU al regno delle amministrazioni statunitensi. Coloro che sono arrabbiati per il modo in cui il presidente Trump ha riconosciuto l’annessione israeliana possono solo incolpare loro stessi per aver lasciato in primis che l’America monopolizzasse il conflitto.


Guardando indietro, sono stupito di quanto molti progressisti, me compreso, abbiano tardato a rendersi conto di tali tendenze.

Poiché l’occupazione era una tale anomalia nel sistema internazionale di sovranità e cittadinanza (anche i governi autoritari non mantengono quasi la metà della loro popolazione nativa con lo status di “non cittadini” soggetti alla legge marziale), ero certo che Israele avrebbe posto fine all’occupazione in maniera autonoma o sarebbe stato isolato e dunque costretto a porvi fine. Anche prima della primavera araba, ho sottovalutato le forze che mantengono lo status quo. Ho preso le dichiarazioni di funzionari stranieri alla lettera, piuttosto che per quello che erano realmente: un servizio formale a idee morte. Credevo anche che le proteste non violente in Cisgiordania sarebbero state il seme di una grande forza politica per il cambiamento, e non sono riuscito a cogliere l’efficacia dell’esercito israeliano e dell’Autorità Palestinese nel reprimerle e nel mantenere lo status quo.

L’Autorità Palestinese è sempre stata uno strano ibrido: uno stato in attesa con un elemento dell’attuale ordine politico. Nell’ultimo decennio abbiamo assistito al crollo della prima parte; oggi rimane solo il secondo. Il movimento nazionale palestinese si è diviso in più pezzi, ciascuno con la propria agenda politica: residenti di Gaza, palestinesi di Gerusalemme est, prigionieri, rifugiati, cittadini arabi di Israele. Ciascuno di questi gruppi ha condotto lotte collettive, ma nessuno ha portato gli altri con sé. Solo i cittadini palestinesi di Israele sono stati gli unici a portare avanti con successo la sua causa. La motivazione è ben chiara: nonostante la discriminazione, sono ancora inclusi nel quadro delle istituzioni democratiche israeliane e hanno imparato a trarre vantaggio dagli strumenti limitati loro offerti. Il loro successo ha dimostrato che non vi è alcun sostituto per i diritti civili; chi ne è privo resta semplicemente indietro.

Hebron, 4 giugno 2019. Le forze di sicurezza dell’Autorità Palestinese impediscono ai sostenitori del partito Hizb ut-Tahrir di pregare. Wisam Hashlamoun / Flash90 per +972 Magazine

A dire la verità, non possiamo separare la crisi della politica progressista in Israele-Palestina dalla crisi globale della politica progressista e di sinistra. Culturalmente, la politica progressista sta procedendo bene, ma all’interno delle strutture politiche formali, ovvero dove si svolgono le elezioni e si formano i governi, il progressismo è sull’orlo del baratro. Il conflitto israelo-palestinese, ovviamente, non è mai stato una questione puramente culturale. Che si tratti della soluzione a uno o due stati, una confederazione o qualsiasi altra cosa, tutti richiedono movimenti politici forti e unificati in cui le persone siano pronte a cooperare con coloro che detengono valori diversi. Devono essere disposti a scendere a compromessi su questioni fondamentali, essere leali gli uni agli altri, seguire la leadership politica e rimanere radicati nella realtà sul terreno, piuttosto che nel simbolismo. In un’epoca di politica liberale astratta e egocentrica, siamo il più lontani possibile da tutto questo.


Allora cosa viene dopo?

Dopo tutte queste previsioni fallite, sarebbe inutile aggiungerne un’altra. In effetti, penso che qualsiasi sensazione di “inevitabilità” in politica sia sempre stata parte del problema. I progressisti sono diventati sempre più bravi a lavorare sul processo, molte volte a scapito di investire in valute politiche forti. Tutti aspettavano che “forze sul campo” (o “forze esterne”) portassero il cambiamento, ma nessuna di queste forze apparve, e quando le cose cambiarono, coloro che beneficiarono dello status quo furono più veloci nell’adattarsi e capitalizzarli.

Tuttavia, lo svanire della soluzione dei due Stati negli ultimi dieci anni potrebbe non essere un netto negativo. Non sono sicuro che il modello a due Stati proposto negli ultimi anni, soprattutto durante i negoziati condotti dal Segretario di Stato John Kerry, avrebbe portato a più libertà, felicità, sicurezza (per entrambe le persone) e prosperità. Un minuscolo stato palestinese con un grande apparato di sicurezza interna, sostenuto dal denaro americano ed europeo, sarebbe sembrato molto simile a una versione degli stati arabi “moderati”, quindi un regime autoritario che, per rimanere intatto e illeso, si basa sulla persecuzione del proprio popolo.

Ramallah, 12 dicembre 2013. L’ex Segretario di Stato John Kerry incontra il presidente palestinese Mahmoud Abbas. (Foto del Dipartimento di Stato)

Il vantaggio della soluzione dei due stati stava proprio nel fatto che si trattava di un’idea semplice da immaginare per le persone, specialmente israeliani e americani. Nell’ultimo decennio, questa soluzione è passata dall’essere un programma politico a una fata morgana: più ci si avvicina, più si allontana. La condizione dello “Stato unico”, d’altra parte, è il deserto in cui ci troviamo ora.

Qualsiasi progetto politico dovrebbe iniziare con il riconoscimento di questa realtà, non con le astrazioni e le fantasie con cui abbiamo avuto a che fare negli ultimi anni. Potremmo non avere una visione chiara del futuro, ma possiamo unirci attorno a ciò che è terribilmente sbagliato nel presente. Combattere per porre fine all’assedio di Gaza, l’aspetto più disumano dello status quo, sarebbe un buon inizio.

(*) Alcuni sostengono che la colpa sia da dare all’Autorità Palestinese per il sistema non democratico a cui sono sottoposti i palestinesi, dal momento che il presidente Abbas vieta di indire nuove elezioni. Tuttavia, anche se i palestinesi votassero per i loro rappresentanti ogni tot anni, non sarebbero in grado di prendere parte alle decisioni importanti che plasmano le loro vite, poiché il potere del sovrano rimane esclusivamente con Israele. Ad esempio, il Consiglio legislativo palestinese potrebbe decidere di costruire una nuova città o di invitare i profughi palestinesi dalla Siria a stabilirsi in Cisgiordania, ma queste decisioni sarebbero prive di significato senza il consenso israeliano. L’Autorità Palestinese può rilasciare documenti di viaggio al proprio popolo, ma senza il consenso israeliano non sarà in grado di viaggiare fuori dal paese, ecc.

(**) La comunità internazionale ha accettato l’assedio come legale. Chiudendo il confine egiziano o impedendo alle flotte di partire dall’Europa verso Gaza (nel caso di Cipro e Grecia), alcuni paesi hanno attivamente aiutato e favorito l’assedio. Per quanto riguarda le operazioni militari, quando Israele ha finito le munizioni nel 2014, l’amministrazione Obama ha aperto il proprio deposito di emergenza e ha fornito all’IDF (Forze di Difesa Israeliane) granate e proiettili.

[Noam Sheizaf è un giornalista ed editore indipendente. È stato direttore esecutivo fondatore e caporedattore di +972 Magazine. Prima di entrare a far parte di tale organizzazione, ha lavorato per il quotidiano locale Ha-ir di Tel Aviv, Ynet, e per il quotidiano Maariv, dove la sua ultima posizione era vicedirettore della rivista del fine settimana. Attualmente sta lavorando a una serie di documentari.]

+972 Magazine è un’organizzazione mediatica indipendente e senza scopo di lucro che concentra la propria attenzione sulla questione Israele-Palestina. Al fine di salvaguardare la nostra voce indipendente, siamo orgogliosi di considerare voi, nostri lettori, i nostri più importanti sostenitori.

Articolo tradotto da Rachele Manna

PalestinaCeL

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