Usando l’archeologia per far valere la sua rivendicazione sulla terra, Israele sta spostando pezzi d’arte dalla Cisgiordania occupata e cancellando l’identità palestinese.
Nella foto Un ebreo ultraortodosso visita la fortezza di Herodium sulla montagna, vicino a Betlemme Novembre 29, 2010. Foto Yaakov Naumi/Flash90.
Dima Srouji Ottobre 1, 2020
In una recente notte d’estate, alla guida di un grande camion a pianale e jeeps, i soldati israeliani sono entrati nel villaggio palestinese di Taquu vicino a Betlemme occupata per rimuovere un fonte battesimale bizantino in pietra. Un palestinese ha ripreso la scena con il cellulare, con mano malferma dato che documentava i veicoli militari dall’alto. Il video è diventato virale su Twitter, e ne è seguito un dibattito sull’ “appartenenza” del fonte di pietra all’area in cui le forze israeliane l’avevano preso. Alcuni hanno sostenuto che il fonte veniva semplicemente restituito a Israele, dopo che i palestinesi l’ avevano spostato dall’insediamento israeliano di Tekoa circa 20 anni fa.
Gran parte del dibattito sull’appartenenza del fonte non solo non riconosce l’illegalità degli insediamenti in Cisgiordania, ma tende a ignorare un altro grande problema: la militarizzazione dell’archeologia da parte di Israele tra il fiume Giordano e il Mar Mediterraneo. Sebbene il saccheggio militare a Taquu rifletta il tipo di sfacciata dimostrazione di potere che raramente viene registrata, questo esproprio sistematico non è invisibile agli occhi dei palestinesi. E non è certamente un fenomeno recente: molteplici autorità dell’insediamento coloniale che hanno controllato i palestinesi nel secolo scorso hanno militarizzato l’archeologia in qualche forma. Oggi, Israele sponsorizza e promuove iniziative archeologiche in Palestina con l’unico scopo di collegare solo la narrativa ebraica alla nostra terra, anziché considerare le sue intricate complessità.
Gli archeologi cercano risposte nel terreno – per i resti di vite precedenti e per i frammenti che possono rivelare la storia antica. I bravi archeologi prima scavano e poi costruiscono una narrazione basata sugli indizi che trovano nel terreno. Il problema nasce quando iniziano a scavare con un’idea preconcetta di ciò che stanno cercando.
Già nel 1908, istituzioni occidentali come l’Università di Harvard e l’Università della Pennsylvania iniziarono a scavare il terreno palestinese con una lente giudaico-cristiana soggettiva. Gottlieb Schumacher, che ha guidato gli scavi di Harvard nel villaggio palestinese di Sebastia, era un Templare praticante (coloni tedeschi che credevano che vivere in Palestina avrebbe affrettato la seconda venuta di Cristo). Gli scavi furono finanziati da sionisti come Jacob Henry Schiff, leader della comunità ebraica a New York e noto banchiere di Wall Street. Schiff ha cambiato completamente la percezione degli archeologi sulla Palestina ed è accreditato per l’ascesa dell’archeologia biblica negli Stati Uniti, una disciplina accademica che utilizza gli scavi in Palestina per dimostrare l’autenticità storica dei testi religiosi.
Quella storia non è solo documentata in libri e riviste accademiche, ma è anche incorporata nei ricordi dei nonni palestinesi, che hanno lavorato per decenni come manodopera a basso costo scavando siti archeologici.

Due mesi dopo la nascita di Israele nel 1948, sotto il ministero dell’Istruzione è stato fondato il Dipartimento israeliano delle antichità e dei musei (DIAM), un precursore dell’Autorità israeliana per le antichità. Già nel 1950, guardie con status di agenti di polizia venivano collocate nei siti archeologici di tutto il paese. Dopo la Guerra dei Sei Giorni del 1967, Israele ha immediatamente promulgato una legge sulle antichità a Gerusalemme, conferendo al DIAM l’autorità di scavare all’interno della Città Vecchia e dei suoi dintorni; il numero di scavi all’interno della città è aumentato da 60 prima del 1967 a 150. Nel 1995, in base al secondo accordo di Oslo, Israele ha ottenuto l’autorità su 7.000 siti archeologici in Cisgiordania, di cui il 53% nell’Area C, dove Israele ha il pieno controllo amministrativo e di sicurezza.
Dato il sistematico saccheggio archeologico di Israele, i soldati catturati nelle riprese di Taquu non possono essere i soli complici della rimozione del fonte. Hananya Hizmi, il capo del Dipartimento di Archeologia dell’Amministrazione Civile, il braccio del governo militare israeliano nella Cisgiordania occupata, si è detto entusiasta del fatto che la sua squadra sia riuscita a “restituire” il fonte bizantino; lo cercavano da anni, ha spiegato, e continueranno a lavorare per impedire “ai ladri di antichità di saccheggiare la storia della regione”.
L’archeologo militare – che, come professione, semplicemente non dovrebbe esistere – è stato celebrato come una figura eroica in una mostra del 2018 al Bible Lands Museum di Gerusalemme. Intitolata “Finds Gone Astray”, la mostra essenzialmente glorificava il ruolo dell’esercito israeliano nella confisca di reperti archeologici dalla Cisgiordania. Secondo il direttore del museo, circa 40.000 reperti sono stati “recuperati” dalle autorità israeliane.
Questo enorme numero di reperti archeologici dovrebbe dare l’allarme, specialmente durante un periodo di grande attività del mercato nero, dopo le guerre in Iraq e Siria. Non è chiaro da dove siano stati recuperati i reperti e non conoscerne la provenienza rende difficile datarli con credibilità e dimostrare la loro autenticità. Questa azione di spostamento conferisce a musei, collezionisti e ministeri della cultura il potere di ridefinire il furto come recupero e di saccheggiare le case come istituzioni prestigiose.

La gente dei villaggi di tutta la Palestina mi ha detto di aver visto veicoli militari israeliani che hanno saccheggiato pezzi d’arte nel cuore della notte più volte negli ultimi anni, come hanno fatto a Taquu. Insieme a questo saccheggio su larga scala, le autorità israeliane avrebbero fatto irruzione nelle case di Al-Jib vicino a Gerusalemme e arrestato ragazzi per avere alcuni frammenti di ceramica, secondo un residente. Ed un altro ha aggiunto che ci sono anche più coloni che visitano il villaggio rispetto al passato, protetti dell’esercito israeliano.
A Sebastia quest’anno, i vicini coloni israeliani di Shavei Shomron hanno bruciato gli uliveti che circondano il sito archeologico e hanno intenzionalmente inquinato il terreno agricolo con le acque reflue delle fabbriche degli insediamenti. Wadi Hilweh nel quartiere Silwan di Gerusalemme, ora chiamato La città di David, corre il grave pericolo di essere completamente svuotato di palestinesi e gentrificato come attrazione turistica esclusivamente ebraica, nonostante la presenza di resti cananei e dell’età del ferro. La scorsa settimana è arrivata la notizia che Elad, il gruppo di coloni israeliani che gestisce la Città di David e altri siti archeologici in Israele, ha ricevuto $ 100 milioni di finanziamenti da Roman Abramovich, il miliardario russo-israeliano, proprietario del club di calcio inglese Chelsea.
In molti di questi siti, monumenti come l’anfiteatro e i fori romani sono usati come palcoscenici e sfondi per spettacoli che perpetuano la propaganda sionista. Gli attori si vestono con costumi antichi e recitano la Torah facendo riferimento ai nomi biblici dei siti archeologici. Queste esibizioni sono in gran parte rivolte a un pubblico giovane, futura generazione di coloni sionisti.
La rimozione e il saccheggio da parte dell’Amministrazione Civile di reperti archeologici sui territori occupati, vietati dalla Convenzione dell’Aia, solleva interrogativi sul destino di altri siti archeologici nelle aree B e C della Cisgiordania. L’amministrazione civile ha recentemente aumentato gli ordini di demolizione nei villaggi palestinesi vicino a queste aree e storicamente ha negato ai palestinesi l’accesso alle loro proprietà agricole e il diritto di costruire o sviluppare qualsiasi infrastruttura, il che ha reso difficile la conservazione dei siti.

Ma di fronte a queste sfide, sta sorgendo una generazione più giovane di palestinesi molto attivi e determinati a resistere. Stanno affrontando questa lotta rivendicando la loro storia e diffondendo consapevolezza e conoscenza sull’uso improprio dell’archeologia da parte di Israele, oltre a richiamare l’attenzione sulle condizioni critiche di questi siti e dei loro reperti. Per i palestinesi, questi oggetti storici sono evocativi. Agiscono come vascelli che trasportano i nostri ricordi e traumi. Che si tratti di una fonte bizantina in pietra o di una chiave di casa palestinese di prima della Nakba, queste forme tattili non sono solo oggetti materiali, sono strumenti con cui ci identifichiamo e con cui resistiamo, e con i quali affermiamo la nostra esistenza che scompare. Per i palestinesi, sono compagni di emozioni.
Il significato del fonte battesimale è cambiato nel tempo e nello spazio. Durante il VI secolo, era una pietra statica utilizzata per la rinascita religiosa e il risveglio spirituale; forse migliaia di bambini furono battezzati nell’acqua santa del suo ventre cavo. Nell’odierna Betlemme, dove gli inni bizantini viaggiano ancora per la città e i bambini continuano a essere battezzati come un tempo, la rimozione del fonte Taquu è un attacco al cuore dell’identità palestinese: un popolo con tradizioni che risalgono a secoli fa. Il fonte ne è un testimone ed una prova.
Dima Srouji è un’ architetta e artista palestinese che lavora a progetti relativi a politica e luoghi, in particolare riguardo alla Palestina. Si è laureata alla Yale School of Architecture e attualmente insegna alla Birzeit University.
Traduzione a cura di Alessandra Mecozzi da: https://www.972mag.com/archaeology-looting-israel-army/?fbclid=IwAR06va2hfRwn2poZ8Czki3bSiDrA3UeyLzQOO-QsW8iPnv_gnoXaLUzHl8g
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