Il cortometraggio della regista britannico-palestinese Farah Nabulsi, ambientato nella Cisgiordania occupata, è stato selezionato per gli Oscar.
di William Parry 9 marzo 2021

Un cortometraggio ambientato nella Palestina occupata – The Present di Farah Nabulsi – è stato selezionato per gli Oscar. Dato il sempre crescente isolamento politico e gli ostacoli che i palestinesi hanno affrontato durante gli anni di Trump in Medio Oriente e in Occidente, gli apprezzamenti a livello mondiale e l’esposizione di cui The Present ha goduto fino ad oggi devono rappresentare un cambiamento ottimistico e inaspettato per molti.
È la semplice e riconoscibile storia di un operaio di nome Yusuf (interpretato da Saleh Bakri), che un giorno esce con la sua giovane figlia, Yasmine (interpretata da Mariam Kanj), per prendere un regalo di anniversario per sua moglie.
Il senso inquietante di ciò che la loro gita per la festa poteva comportare è trasmesso con le strazianti e claustrofobiche scene iniziali del lavoro quotidiano di Yusuf che va e viene attraverso il Checkpoint 300 a Betlemme – l’unica scena che è stata girata nel vero checkpoint per catturare la immagine di disumanità imposta a coloro che sono costretti a usarlo.

Attraverso la scrittura e la regia serrata e sfumata di Nabulsi, i personaggi mostrano abilmente cosa significano i checkpoint israeliani per le decine di migliaia di palestinesi che devono attraversarli ogni giorno. Il suo obiettivo dietro il film era quello di esporre l’indegnità e la violenza subita quotidianamente connettendosi con il pubblico a livello umano ed emotivo, e questo è stato efficacemente raggiunto come attestano i riconoscimenti.
Non male per un debutto alla regia. E ancora più impressionante per qualcuno che è arrivato al cinema da una carriera di successo nel mondo aziendale, attraverso un cambiamento radicale. Per apprezzare il viaggio che Nabulsi ha fatto per arrivare a The Present, è intrigante tornare indietro, al suo passato.
“Sono nata, cresciuta, nel Regno Unito, e posso dire che non si faceva quasi nessun discorso politico in casa mia. I miei genitori non si occupavano affatto di politica. Ma non mi hanno mai permesso di dimenticare le loro radici e quindi essenzialmente anche le mie. Non ho mai avuto crisi d’identità – ero britannica e palestinese”, dice Nabulsi.
I suoi genitori avevano un insegnante di arabo che veniva ogni sabato, cosa che lei e sua sorella sopportavano a malincuore, dice Nabulsi – e visitavano regolarmente la famiglia in Palestina.
“Da bambine, andavamo in Palestina, e penso che questo abbia gettato certi semi – politicamente, no – ma ha creato certi legami, certe connessioni con la gente, con la terra, con gli amici che ci siamo fatte, con la nostra casa ancestrale, letteralmente. Ricordo la casa di mio nonno e il cortile dove raccontavamo storie intorno al fuoco, e mia zia spremeva limonata fresca. Quindi ho questo, ho avuto questo, e penso che questo abbia gettato i semi”.
Quelle visite familiari si sono interrotte quando è scoppiata la prima Intifada e non sono più riprese – qualcosa che chiaramente turba Nabulsi.
“Sono un po’ infastidita da quella fase, quel divario di 25 anni in cui in qualche modo do la colpa allo stigma che i miei genitori hanno o hanno avuto dal tempo dell’Intifada. Viene dal fatto di voler proteggere noi e il loro trauma intrinseco. Ma non capisco perché non siamo tornati dopo l’88 – perché non avremmo dovuto?”
Vedere la realtà
In breve tempo si è fatta una famiglia tutta sua e una solida base nel mondo aziendale. Nel 2013 Nabulsi ha deciso che era il momento di portare i suoi figli in Palestina (i suoi genitori si opponevano ancora all’idea di visitarla). Quell’esperienza è stata di assoluta trasformazione, dice.
“Mi hanno colpito così tanto tutte queste cose che pensavo di aver capito. Ma quando si legge un libro o si guarda un documentario, o si ascoltano le notizie, specialmente se si vive in Occidente e ci sono un sacco di travisamenti e pochissima rappresentazione del contesto nei media, ovviamente – ma mi piaceva pensare di essere andata oltre. Ma niente poteva sostituire l’ andare davvero a vedere – vedere davvero la realtà”.
Parlare con la gente del posto le cui vite sono influenzate negativamente dai posti di blocco e sperimentarli in prima persona ha giocato un ruolo fondamentale in questa esperienza, dice Nabulsi.
“Puoi ritrarre i posti di blocco con tutti i fatti e le cifre – una donna può partorire a un posto di blocco; la gente non può andare al lavoro o altro. Ma se vai in un posto di blocco, è una percezione molto diversa da quella che forniscono i fatti e le cifre. È stato un viaggio che mi ha cambiato la vita, ha avuto un enorme impatto su di me. Sono tornata e ci ho combattuto per due anni”.
Nabulsi ha trascritto le sue esperienze e riflessioni su quella visita, ma la domanda su cosa avrebbe potuto fare per una differenza significativa che sfidasse quella realtà persisteva. Sostenere gli enti di beneficenza e le organizzazioni di solidarietà che fanno “un lavoro incredibile” era un’opzione, dice, ma sentivo che c’era di più.
“Che fare per questo livello di coinvolgimento – non intendo a livello mentale, perché in questo senso c’è molto a disposizione – ma come si fa a coinvolgere le persone attraverso il cuore? In definitiva questo è ciò che mi interessa. Voglio parlare alle persone dal mio cuore al loro cuore, invece di parlare di fatti e cifre. E gli studi dimostrano che se riesci a portare le persone a capire e sentire, e ti rivolgi a loro attraverso il cuore, hai più possibilità di allontanarle dalle loro posizioni o addirittura di far loro cambiare idea”.
Focus sulla condizione umana
Il cinema le è sembrato uno dei modi migliori per raggiungere questo obiettivo. Da qui il cambio di carriera verso la produzione di film.
“Per me, è diventato così ovvio che quello era il modo in cui volevo impegnarmi”, dice Nabulsi. “E amo il cinema da sempre. Chiunque mi abbia conosciuto da adolescente sa che sono esattamente dove dovrei essere in questo momento e questo mi è sembrato proprio giusto. Non significa che il viaggio che ho fatto non mi sia piaciuto – in realtà è stato molto utile in molti modi”.
Da quando si è dedicata al cinema nel 2015, Nabulsi ha creato una piattaforma di advocacy, oceansofinjustice.com, e ha prodotto quattro cortometraggi, tra cui The Present, ognuno con un diverso focus sui diritti umani in Palestina. I suoi primi tre erano basati sui suoi scritti di quel viaggio “trasformatore” in Palestina e sono stilisticamente molto diversi da The Present – “più sperimentali, più ritratti”, dice, e sono stati prodotti prima che lei avesse una formazione ufficiale come regista.
Tra altre proiezioni e domande / risposte su The Present, Nabulsi sta lavorando al suo primo lungometraggio – “un dramma-thriller incentrato sui personaggi, sulla perdita, sull’auto-assoluzione e sulla genitorialità, ambientato nel paesaggio geopolitico della Palestina”, dice, che vede ancora Saleh Bakri nel ruolo principale.
Che The Present arrivi o meno alla battuta finale per gli Oscar il 15 marzo, Nabulsi è estasiata dal livello di visibilità che ha ricevuto e dal pubblico che sta raggiungendo a livello globale – sollecitando le persone in tutto il mondo a capire meglio i problemi in modo da essere coinvolti in azioni che contribuiscano al cambiamento. E sta lavorando al suo film con la stessa intensità e senso di perseguire un obiettivo, dice la stessa Nabulsi.
“Non posso farne a meno e sto andando avanti in una direzione che mi sembra molto giusta“.
Articolo proveniente da Al-Jazeera
Traduzione di Rachele Manna
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