di Rania Hammad, scrittrice e attivista, già docente di Relazioni Internazionali alla St. John’s University – Roma

foto da Terrasanta.net
Il fallimento degli Accordi di Oslo e del “processo di pace” sono da attribuire a Israele. Questo si può comprendere solo analizzando le vicende degli ultimi decenni attraverso la lente delle regole della realpolitik.
La scuola di pensiero realista e pragmatica che domina le relazioni internazionali e che sta alla base dello studio della politica, spiega con chiarezza come i politici, a differenza degli intellettuali teorici o accademici, agiscano seguendo le regole del gioco politico per raggiungere un obiettivo strategico o per migliorare una condizione. Per fare ciò, è necessario scendere in “campo”, cioè praticare la politica: mettersi al tavolo dei negoziati per fare politica attraverso il dialogo, trattando con l’intenzione di raggiungere un traguardo a lungo termine, con l’agire pragmatico e razionale proprio del grande sistema delle relazioni internazionali.
Il motore che muove le parti, la moneta di scambio tra di loro è il potere di ciascuno, il potere inteso come il mezzo e la capacità reale di influenzare gli altri e di manipolare le loro azioni, limitando le loro scelte e controllando il risultato finale.
Il termine, il concetto di potere, è estremamente rilevante, è la chiave, determinante.
Lo Stato che detiene il potere in termini militari, politici ed economici esercita un potere coercitivo sulla parte debole, ed è da qui che bisogna partire per comprendere i fallimenti e il deterioramento della condizione del popolo palestinese nonché la rabbia e la frustrazione della popolazione nei confronti dei propri politici. Essi sono visti come soli responsabili, mentre in realtà hanno operato e si sono mossi all’interno di un sistema a loro avverso. Israele, che detiene il potere, ha incassato il risultato voluto, realizzato esattamente come da loro pianificato, con lo scopo non solo di ottenere ciò che volevano, la continua colonizzazione della Palestina, ma delegittimando e incolpando la parte palestinese. I Palestinesi hanno operato dentro un meccanismo ed un sistema che li ha potuti condizionare, indebolire, e delegittimare proprio perché parte debole.
Ricordare la storia e gli avvenimenti, nonché contestualizzare gli accadimenti che hanno portato ai giorni nostri, è importante e vitale. I protagonisti di quelle vicende meritano di essere ricordati per quello che sono, persone che in un determinato momento storico hanno agito seguendo principi e regole imposte dal sistema esistente in quel momento storico e in quel contesto geo-politico.
Le loro azioni erano limitate, è come se non avessero avuto libero arbitrio, ma fossero stati spinti a prendere decisioni dettate dalle regole del gioco politico, della realpolitik.
Dunque, a trenta anni da Oslo, Oslo merita di essere studiata in tutte le sue sfaccettature. La situazione è più complessa e ingarbugliata di quello che si pensa, e necessita di analisi approfondite e di contestualizzazioni, non di generalizzazioni o semplificazioni che oggi dominano le narrazioni di ogni conflitto in atto, e che con superficialità raccontano i fatti privandoli della chiave storica e del contesto in cui si sono svolti.
Ammettiamo invece che Israele abbia da sempre avuto un piano politico e militare di colonizzazione, voluto, progettato ed eseguito in maniera da prendere alla sprovvista, da sorprendere e scioccare anche chi invece aveva creduto nella Conferenza di Madrid del 1991 e poi negli accordi di Oslo del 1993. Ammettiamo anche che c’è chi ha realmente creduto nella “Soluzione dei due Stati per due popoli” e di “terra in cambio di pace”, nella soluzione della questione dei rifugiati palestinesi e nella capitale condivisa, pensando di ottenere la risoluzione di tutti i punti del “final status agreement” e di un futuro di pace e stabilità per il popolo palestinese.
Ricordiamo anche che chi ha negoziato e firmato quegli accordi, credeva fortemente nel processo di pace, mentre solo ora, diventa più facile riconoscere che avevano ragione i critici e che era un errore strategico.
Domandiamoci se dopo la continua colonizzazione, l’espansione degli insediamenti, Camp David nel 2000, la Seconda Intifada, l’11 settembre, la guerra in Afghanistan e l’invasione dell’Iraq con la conseguente “guerra al terrorismo” e l’islamofobia, la vittoria di Hamas nella Striscia di Gaza del 2006, se possiamo dire con certezza che il risultato del deterioramento, e il fallimento di Oslo, siano da attribuire esclusivamente a quella classe politica che ha iniziato un processo di pace, incontrando tutto questo sulla strada?
E la domanda più importante invece è questa. Se non fosse stato assassinato Yitzhak Rabin da un israeliano avverso al processo di pace, siamo certi che non avrebbe potuto essere tutto diverso?
Oggi dobbiamo riconoscere che avevano ragione i critici, i cinici e i pessimisti, convinti che Israele facesse sempre un gioco sporco. Il processo di pace era un’illusione e una trappola.
Ma ciò non cancella il fatto che i negoziatori di Oslo hanno sinceramente creduto di poter giocare sullo scacchiere internazionale della realpolitik, pensando che con la presenza fisica sulla terra di Palestina le questioni aperte potessero essere affrontate li, con uno sviluppo positivo. Eventualità possibile, se solo la legalità internazionale e i diritti umani fossero al di sopra delle regole del realismo politico e del potere.
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