Mi pento della mia prigionia dopo essere stato condannato per aver compiuto attentati? È complicato. Mi pento di una cosa: aver lasciato che mi spingessero in un angolo.
Di Tareq Barghouth , 23 marzo 2023

Tareq Barghouth (al centro) parla alla stampa israeliana. (Philippe Bellaïche)
In collaborazione con Local Call
Quella che segue è una lettera di Tareq Barghouth, un prigioniero politico palestinese che nel luglio 2019 è stato condannato a 13,5 anni di carcere, dopo aver commesso attacchi a fuoco contro soldati israeliani nella Cisgiordania occupata. La lettera è stata scritta dall’interno della sua cella di prigione come messaggio alla società occupante.
Nel mondo in cui dovrei trascorrere i prossimi 10 anni, il prigioniero usa vari trucchi per ingannare le lancette del tempo. Il trucco più efficace è recuperare i propri ricordi. Così facendo, il prigioniero prende due piccioni con una fava: da un lato, fa passare il tempo e non permette a sentimenti come la noia e il vuoto di impadronirsi della sua mente; e dall’altro, esamina i dettagli dei suoi ricordi e impara da essi.
Con il passare degli anni, mi sono immerso sempre più profondamente nei miei ricordi. Una scena spicca tra tutte le altre. L’evento si è verificato all’inizio della Prima Intifada, nel villaggio di Al-Eizariya (Betania), quando ho compiuto 12 anni. Quel giorno indossavo una maglietta speciale: una manica nera e l’altra verde, la maggior parte della camicia bianca ma con una tasca rossa sul lato sinistro. Mi sono seduto con i ragazzi del villaggio vicino al mercato, dove avevano da poco costruito una nuova fermata dell’autobus, e abbiamo giocato seduti lì, sulla panchina.
L’attrazione era guardare le auto nuove dei residenti dell’insediamento israeliano di Ma’ale Adumim che percorrevano la strada principale del villaggio, sulla strada per Gerusalemme. A ognuno di noi piaceva un’auto in particolare e abbiamo persino scelto un soprannome per noi stessi in base al nostro modello di auto preferito. Ad esempio, ho scelto il soprannome Subaru.
Mentre eravamo seduti lì, è passata una jeep militare. All’improvviso, la jeep si è fermata accanto a noi. Due soldati armati sono scesi dall’auto e sono corsi verso di noi. Mi hanno afferrato per un braccio e mi hanno trascinato sulla jeep. Uno di loro iniziò a urlare mentre mi stringeva la guancia. Non ho capito il significato delle sue azioni. Lentamente ho iniziato a rendermi conto che la rabbia dei soldati era collegata alla maglietta che indossavo. Mi hanno costretto a togliermela e me l’hanno portato via.
In quel momento ero profondamente imbarazzato, seminudo, sulla via principale del paese. Uno dei soldati mi ha afferrato e mi ha fatto sedere sul cofano della jeep, poi mi ha legato le mani alla sbarra di ferro montata sulla parte anteriore dell’auto che ha lo scopo di proteggere i soldati dai cecchini. I soldati iniziarono a guidare lentamente per le strade del villaggio. Dopo un lungo viaggio, la jeep si è fermata, il soldato che mi ha legato le mani è sceso, si è messo davanti a me e mi ha schiaffeggiato. Mi ha chiesto, in arabo, dov’era la casa della mia famiglia. La casa era a pochi isolati di distanza. Ho immaginato che le persone mi vedessero in questa situazione.

Foto illustrativa che mostra la polizia israeliana che arresta un manifestante palestinese in un villaggio a nord di Gerusalemme, durante la Prima Intifada, il 25 dicembre 1987. (GPO)
Le lacrime hanno cominciato a scorrere. Ero soffocato dall’umiliazione. Quando siamo arrivati a casa mia, mia madre ha visto cosa stava succedendo e ha riempito il quartiere con le sue grida. I soldati mi hanno rilasciato e se ne sono andati come se niente fosse. Avevo una maglietta simile a casa e mia madre l’ha stracciata.
La mia risposta all’umiliazione è stata inizialmente quella di appendere bandiere palestinesi su cavi e pali dell’elettricità. Questo si è trasformato in un’ossessione e la mia reazione non si è fermata qui. Tre anni dopo, sono stato arrestato e condannato a un anno di prigione per aver dato fuoco a un’auto a noleggio appartenente a una società israeliana.
Quando sono uscito di prigione, la realtà era completamente diversa. Cambiamenti drammatici avevano capovolto la situazione politica. Gli Accordi di Oslo e il processo di pace erano decollati. I palestinesi davano rami di ulivo ai soldati israeliani invece di lanciare pietre e bombe molotov. Le bandiere palestinesi sono state sventolate senza alcun disturbo. Mi sono detto che il sogno si era avverato, che finalmente saremmo stati liberi ed uguali come ogni altra nazione.
La mia esperienza di arresto e interrogatorio, iniziata nella mia infanzia e terminata quando sono diventato adulto, mi ha spinto a studiare legge.
In effetti, sono stato fortunato e ho ricevuto una borsa di studio per studiare in Marocco. Lì la vita era completamente diversa. Più normale. Senza soldati, posti di blocco o ostilità etnica. Le persone vivevano felicemente la loro vita, senza distruggere la vita degli altri.
Finii gli studi e tornai alla realtà. Scoppiò la Seconda Intifada. Mi accontentavo di osservare la situazione da lontano. Ho dedicato tutti i miei sforzi allo studio dell’ebraico e alla preparazione per l’esame di avvocato. La mia ammissione è stata ritardata di alcuni anni a causa della mia fedina penale e del mio background in materia di sicurezza, ma alla fine sono diventato avvocato. Il mio obiettivo era rappresentare i prigionieri per ragioni di sicurezza.

Tareq Bargouth (a destra) e Lea Tsemel (a sinistra). (Philippe Bellaïche)
Quando sono stato arrestato alla fine della Prima Intifada, mi avevano trattenuto presso la struttura per gli interrogatori militari di Dahariya nel distretto di Hebron. Il mattatoio: così lo chiamavano le persone detenute lì per gli interrogatori. Ho perso conoscenza lì un paio di volte a causa delle percosse che ho ricevuto dagli interrogatori. Ho compiuto 16 anni lì dentro.
Dopo 18 giorni di torture, la porta dell’ “armadio shabah” (il termine che indica legare mani e piedi del detenuto a una sedia) si è aperta. La guardia carceraria militare, che ha costretto i detenuti a chiamarlo “Capitano”, mi ha detto che avevo un’udienza. Abbiamo camminato per un breve tratto nella struttura finché non siamo arrivati in una stanza piena di soldati e civili. Sulla soglia un uomo si è avvicinato a me e ha detto rapidamente una breve frase: “Tarek, sono l’avvocato difensore e la tua detenzione è stata prorogata di 30 giorni”. Il capitano mi riportò nell’armadio e quella fu la fine dell’udienza.
Quel comportamento malvagio mi ha motivato a lottaare ogni giorno e ogni ora di detenzione, soprattutto nel caso di minori. È vero che le modalità di interrogatorio sono cambiate dagli anni ’90, ma c’è ancora un’enorme disparità nei due sistemi di applicazione della legge tra il fiume e il mare.
Nonostante questa triste realtà, credevo che ci fosse una possibilità di partecipare alla giustizia. Questo senso si è gradualmente aaffievolito con il tempo. Nei tribunali militari, la possibilità della giustizia è svanita rapidamente . Qualsiasi giurista ragionevole può sentire l’odore del razzismo già dai cancelli d’ingresso, dove attendono le famiglie dei detenuti palestinesi.
Questa è la punta della lancia dell’apartheid israeliano, libero da ogni vincolo umanitario. Nei tribunali civili, questo non era così visibile ad occhio nudo. Lì, il lavoro degli avvocati difensori che si occupavano dei casi di sicurezza palestinese veniva condotto in condizioni ragionevoli. C’era più spazio di manovra che nei tribunali militari . Sebbene il mostro del razzismo si annidasse anche nelle aule dei tribunali civili, era più piccolo, ridotto per la frustrazione e silenzioso, non chiassoso.

La famiglia di Bassem Tamimi, arrestato con l’accusa di “manifestare senza permesso e mandare persone a lanciare pietre”, si riunisce davanti al tribunale militare di Ofer prima della sua udienza, Cisgiordania occupata, 10 aprile 2011. (Oren Ziv /Activestill)
La svolta è arrivata con l’ondata di violenza scoppiata dopo l’assassinio dell’adolescente palestinese Mohammed Abu Khdeir da parte di estremisti ebrei. I tribunali in particolare, e il sistema delle forze dell’ordine più in generale, sono diventati peggiori delle loro controparti militari. La maschera è caduta ed è stato rivelato il vero volto della supremazia etnica.
I tribunali canguro stati accolti con elogi da alti funzionari governativi. Minori e donne sono stati giustiziati senza l’intervento del sistema giudiziario. In un caso, un agente di polizia ha ricevuto una medaglia di riconoscimento e complimenti per aver “eliminato” a sangue freddo un minore che aveva delle forbici usate per tagliare la carta. Invece di detenere, arrestare, interrogare e far processare le persone, il sistema si accontentava di una pallottola in testa.
La situazione era catastrofica. Ma l’oltraggiosa assurdità proveniva dalle sale della giustizia, dall’interno delle mura dei tribunali. Le attività di giudicare e perseguire sono state messe insieme, producendo una miscela priva di qualsiasi relazione umana con le circostanze in cui minori e donne venivano a trovarsi nell’ondata di violenza. La punizione era l’obiettivo e ogni altra considerazione giudiziaria veniva calpestata sotto il piede arrogante dell’etnocrazia. Sentivo di non poter essere più impegnato in questo sistema. Non è che l’ho tradito, è stato lui a tradire me.
I metodi che il regime usa per spezzarci sono i più stupidi del mondo della politica. Sono una specie di vaso di Pandora, con il quale è assolutamente vietato giocare. Il regime israeliano è il campione mondiale nell’usare questo metodo. La mentalità che c’è dietro è il prodotto di un’eredità paranoica che viene dal profondo della storia del popolo di Israele: ” In ogni generazione , insorgono e cercano di distruggerci” (passo della Haggadah, letta nella Pasqua ebraica n.d.t.) . I palestinesi che vivono tra il fiume e il mare, la cui unica colpa è il loro desiderio di vivere in libertà e dignità, sono le vittime naturali di questi metodi.
Il regime che sostiene questo metodo non può essere un partner nel processo di pace perché la supremazia radicata gli impedisce di cambiare e integrarsi attraverso l’uguaglianza. Questa supremazia giustifica tutti i comportamenti abusivi del regime nei confronti di coloro che gli si oppongono.

Soldati israeliani arrestano un giovane palestinese durante una protesta contro il riconoscimento di Gerusalemme come capitale di Israele da parte di Donald Trump, Hebron, Cisgiordania, 7 dicembre 2017. (Wisam Hashlamoun/Flash90)
La fine della supremazia etnica è ben nota. La storia dimostra che non si può sfuggire alla sua condanna, come accadde nel caso dell’apartheid in Sudafrica. Per quanto riguarda Israele, questo destino dipende dalla realizzazione di due fattori: la negazione dello status “temporaneo” dell’occupazione e la diminuzione della rilevanza della memoria dell’Olocausto.
Questi fattori hanno cominciato a concretizzarsi quando Israele ha scelto l’opzione di “gestire il conflitto” invece di risolverlo. Micah Goodman, uno dei pensatori di spicco del regime, comprendeva la difficile situazione. E così ha proposto una terza opzione, che ha chiamato ” ridurre il conflitto “, che significa espandere l’autonomia palestinese e migliorare le condizioni per il suo funzionamento. Pensava che un’opzione come questa avrebbe salvato Israele dalla trappola in cui era caduto dopo la guerra del 1967, contenuta nel dilemma della scelta tra i due principi che incarnano i fondamenti politici dello Stato: l’ebraismo e la democrazia.
Suggerirei, a tali intellettuali del regime israeliano e dei suoi guardiani, di ampliare la loro prospettiva quando guardano al conflitto israelo-palestinese e di non concentrarsi sulle scienze sociali e politiche. Ecco, ad esempio, un caso da un campo completamente diverso, che ha il potere di far luce sull’essenza e lo sviluppo della lotta: la zoologia.
In Sud Africa, gli scienziati hanno riscontrato uno strano fenomeno. Un gruppo di leoni iniziò a depredare gli abitanti dei villaggi che circondavano il suo territorio. Gli scienziati erano preoccupati, quindi decisero di studiare a fondo il fenomeno e scoprirono quanto segue:
Gli abitanti del villaggio erano pastori. Nonostante il gruppo di leoni vivesse nello stesso territorio, non si erano verificati eventi insoliti. Entrambe le parti – gli abitanti del villaggio e i leoni – vivevano le loro vite in armonia. Ad un certo punto, gli abitanti del villaggio decisero di iniziare a lavorare la terra. Hanno abbandonato la pastorizia. In quel periodo, e dopo un po’ di tempo, cominciarono ad arrivare segnalazioni di leoni che depredavano gli abitanti dei villaggi. Col passare del tempo, questo divenne abituale. Gli scienziati hanno stabilito che la ragione di ciò era legata al territorio. Da un lato, la lavorazione della terra provocava l’allontanamento della preda naturale, dall’altro, il gruppo di leoni non poteva recarsi in un altro territorio per un semplice motivo: questo creava conflitto con altri gruppi di leoni. E così, il gruppo è stato messo alle strette e costretto a depredare gli abitanti del villaggio.
Il mondo dietro le sbarre ti deruba di ciò che è più prezioso: la libertà. E ti soffoca con ciò che è più umiliante: la sottomissione. Un fiume di umiliazioni quotidiane si riversa sui suoi abitanti in nome del debito nei confronti della società.
Questa situazione è doppiamente negativa se il prigioniero è contrassegnato come un attentatore alla “sicurezza”. Quindi la macchina funziona instancabilmente, seminando caos e distruzione in ogni angolo della sua vita. Ogni particella di questo mondo è rivolta a spezzare la sua anima. Si parte dalla sua cella di prigione e dai suoi colori, che irradiano disperazione e spossatezza, e si sposta nel cortile rosso, su cui vengono torturati i nervi. Le finestre attraverso le quali non si vede altro che una foresta di di fili spinati. In carcere ci sono solo persone, niente piante e niente animali. In questa scatola di cemento e ferro non vedi il cielo e non cammini sulla terra. I prigionieri sono convinti che questo non sia il mondo reale ma una sorta di dura virtualità. Un incubo continuo e nient’altro.
Rimpiango la mia prigionia dopo essere stato condannato per aver compiuto attentati? Questa è una domanda complicata. Ma sicuramente rimpiango una cosa: come ho lasciato che mi spingessero in un angolo?
Una versione di questo articolo è apparsa per la prima volta in ebraico su Local Call. Leggilo qui .
Tareq Barghouth, avvocato, ha rappresentato i palestinesi nei tribunali militari e ora sta scontando una pena detentiva di 13 anni e mezzo dopo essere stato condannato da un tribunale militare per aver sparato contro soldati israeliani e autobus che servivano gli insediamenti nell’area di Ramallah.
Traduzione a cura della redazione
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