
Quando assisti a una demolizione, è come se la distruzione continuasse per ore. In realtà bastano pochi minuti per smantellare le nostre vite.
Di Awdah Hathaleen 18 novembre 2021
La nostra lunga storia di demolizioni in Palestina ci ha insegnato due cose: la violenza è sempre dietro ogni angolo e l’occupazione israeliana non si ferma mai. Ma anche se questa è la nostra realtà, sogniamo ancora di avere una vita normale, di trascorrere del tempo con i nostri compagni, di fare viaggi di piacere, di sposarci e di avere figli.
Alcuni anni fa, io e i miei tre amici ci siamo svegliati presto una mattina nel nostro villaggio di Umm al-Khair nelle colline a sud di Hebron per fare un viaggio nel nord della Palestina. Era un’uscita che avevamo in programma da tempo. Non guadagnamo molto, quindi abbiamo dovuto risparmiare e sacrificarci a lungo per raccogliere i soldi per il viaggio.
Mio cugino Ahmad, che voleva diventare un fotografo, era particolarmente entusiasta: per lui, questa era un’opportunità per sperimentare nuovi posti e per inseguire il suo sogno di catturare immagini di una vita che non aveva mai vissuto pienamente. Ha comprato una macchina fotografica solo per questo viaggio. Abbiamo parlato di tutti i siti che avremmo visto e delle avventure che avremmo avuto. Ognuno di noi aveva la propria visione per questo viaggio speciale.
Ma quando ci siamo radunati all’ingresso del nostro villaggio, in attesa del nostro trasporto per la giornata, abbiamo sentito quel rumore terrificante che avevamo sentito tante volte prima. In pochi secondi, file di jeep e bulldozer militari israeliani si sono diretti verso il nostro villaggio, accompagnati da funzionari dell’amministrazione civile israeliana, il braccio del governo militare che governa i palestinesi nei territori occupati.
Eravamo tutti sopraffatti dalla paura, sapendo cosa ci riservava la giornata. In quei momenti prima di un raid di demolizione, noi palestinesi non sperimentiamo solo la paura di ciò che potrebbe accadere: siamo consumati dalla paura di tutti gli eventi accaduti prima. In questi giorni, non viviamo solo la demolizione di una casa, le viviamo tutte.

In questi momenti strazianti, c’è sempre un punto in cui le nostre anime si liberano dal trauma e raggiungono i cieli pregando per aiuto e protezione. Quando abbiamo visto le autorità avvicinarsi, ci siamo bloccati come per dire: “per favore, non farlo, Dio”.
Il convoglio è passato davanti all’ingresso del nostro villaggio e per un breve momento abbiamo pensato che Dio ci avesse davvero risparmiato quel giorno. Ma poi abbiamo visto l’esercito chiudere diverse strade a est del villaggio e poi sono entrati nella nostra comunità.
Le chiusure stradali impediscono agli attivisti della zona circostante di raggiungere la comunità e documentare le demolizioni delle abitazioni; per l’esercito israeliano non basta distruggere le nostre case, deve anche controllare come vengono raccontate le loro azioni. Non vogliono che il mondo veda soldati che picchiano vecchi, o madri fuori di sé che tengono in braccio i loro bambini in lacrime e terrorizzati. L’esercito deve far credere al mondo che distruggere una casa è una decisione legale e morale.
Nel momento in cui abbiamo visto l’esercito in procinto di chiudere le strade verso la nostra comunità, io e i miei amici siamo corsi dai nostri cari. Non perché potevamo proteggerli – c’è poco che possiamo fare in queste situazioni – ma piuttosto solo per essere lì per sostenere emotivamente le nostre famiglie e i nostri amici.
Siamo stati fortunati che Ahmad avesse la sua nuova macchina fotografica in quel momento, ed è stato in grado di documentare tutto ciò che è successo quel giorno. È importante per noi condividere la nostra storia con il mondo, e forse gettare un po’ più di luce su ciò che accade sotto l’oscurità del governo militare di Israele.

I manifestanti marciano ad A-Rakeez, nell’area di Massafer Yatta, a sud di Hebron, verso l’avamposto di Avigail, una settimana dopo che il 24enne Harun Abu Aram è stato colpito al collo mentre tentava di impedire ai soldati israeliani di confiscare il generatore di un vicino. 8 gennaio 2021. (Keren Manor/Activestills)
In giorni come questi, la fotocamera ci consente di catturare più di semplici bulldozer israeliani che distruggono le nostre case. Cattura la gravità di queste demolizioni ed espone l’impatto devastante che hanno sulle nostre comunità. Le persone a volte dimenticano che queste case non sono fatte solo di materiali fisici, sono costruite con vita, amore e tempo prezioso.
Uno degli amici che mi accompagnava quel giorno, per esempio, si era sposato da poco e aveva speso i risparmi di una vita per costruire la sua piccola casa. Molti possono riferirsi all’essere appena sposati, riguardo a quel momento di una relazione in cui il futuro è aperto e le possibilità sembrano infinite.
È stato quindi duro per noi guardare attraverso l’obiettivo di una telecamera mentre la vita del nostro caro amico veniva demolita. Quando impugni la macchina fotografica, tutto ti passa per la mente in una volta: puoi sentire in testa la tua stessa supplica a Dio di non distruggere questa casa e di risparmiare il tuo amico. Spesso vogliamo semplicemente andarcene e lasciar andare il dolore, ma sappiamo anche che dobbiamo sopportare il trauma nella speranza che la storia che condividiamo cambierà le menti di coloro che permettono all’occupazione israeliana di continuare.
Quando assisti alla demolizione, ti sembra che la distruzione e tutti i pensieri e le emozioni che ne conseguono continuino per ore. In realtà bastano pochi minuti di lavoro per smantellare le nostre vite. Ad ogni demolizione, sembra che l’esercito israeliano sia migliorato nell’eseguire la distruzione del nostro villaggio. Quel giorno cinque case sono state distrutte e 36 persone sono state sfollate, e tutto è successo così rapidamente.
Il senso del tempo in queste situazioni è ciò che rende tutto così surreale per noi. È come un incubo a cui non possiamo sfuggire e che dobbiamo rivivere ancora e ancora.
Awdah Hathaleen è un attivista e membro collettivo di Umm al-Khair nelle colline a sud di Hebron. È un insegnante di inglese nel suo villaggio, avendo studiato insegnamento dell’inglese all’Università di Hebron.
Traduzione a cura della redazione
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