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Dove sono oggi i tre sorridenti personaggi di Fatah?

di Amira Hass da Haaretz 22 febbraio

La liberazione e la libertà sono sempre belle durante il periodo di lotta. Ma quando gli ex combattenti per la libertà diventano parte del nuovo regime, le crepe oscurano il loro passato eroico

Ci sono tre uomini sorridenti in questa foto. Quello in mezzo è più anziano, con una barba che si sta ingrigendo, la fronte ampia e una pipa. Sembra un rivoluzionario cubano. Ai suoi fianchi da entrambi i lati uomini più giovani che sembrano studenti usciti da una caffetteria. Uno ha i baffi, l’altro porta gli occhiali. Quello con gli occhiali è Mohammed Dahlan, un tipo un pò dandy, che appoggia affettuosamente il gomito sulla spalla dell’uomo più anziano, Abu Ali Shahin. Il sorriso di quello con i baffi, Marwan Barghouti, assomiglia un pò alla sua risata contagiosa, che nasconde un sensosorridenti dell’umorismo autoironico. (Nel nostro primo incontro, nel 1997, mi spiegò, dietro mia richiesta, come gli Accordi di Oslo avrebbero condotto all’indipendenza. Alla fine della spiegazione, gli dissi che non capivo, e lui: “nemmeno io”).

I sorrisi erano appropriati; la foto pare sia del 1988 o 1989, all’apice della rivolta popolare nota come la prima intifada. Ma i tre uomini sorridenti non si trovano a casa loro: Israele li aveva espulsi dalla terra natale. Ciononostante, i loro sorrisi e la loro gioia sembrano tanto autentici che fanno venire da piangere.

Tutti e tre erano il presente e il futuro nel movimento Fatah, coraggiosi eroi popolari che avevano fondato il Fatah Youth Movement (Movimento Giovanile di Fatah) e che Israele avrebbe imprigionato e esiliato.

Qui, in una foto su un divano ad Amman, erano convinti che la fine dell’occupazione fosse vicina; dopo tutto nessun tiranno poteva resistere a un popolo unito. L’immagine gioiosa cattura una tragedia tipica dei movimenti di liberazione: La liberazione e la libertà sono sempre belle durante il periodo di lotta. Ma quando gli ex combattenti per la libertà diventano membri del nuovo regime, le crepe oscurano il loro passato eroico e rivelano questioni che erano nascoste o considerate secondarie.

La terribile differenza tra la lotta palestinese e quelle di altri popoli – il Sud Africa e l’Algeria, per esempio- è che da un punto di vista formale, non solo filosofico o economico, il dominio straniero non è stato rimosso. I Palestinesi stanno vivendo sia sotto il dispotismo di Israele che sotto il proprio governo difettoso e mal funzionante.

In realtà con il malfunzionamento di due governi- quello di Hamas a Gaza e quello di Fatah nella West Bank.

Due non-stati per un popolo e in ciascuno il partito al potere crea il proprio feudo, fatto di ministri di governo, forze di sicurezza e polizie, entità che creano posti di lavoro e stipendi che sottomettono ai governanti chi ne usufruisce, mettendo a tacere ogni critica o protesta.

Shanin, un personaggio locale rifugiato dal villaggio di Basheet, a sud est di Ramle, è morto a Gaza nel 2013 all’età di 80 anni. Negli ultimi anni di vita ha dovuto smentire voci che lo accusavano di corruzione quando era stato ministro.

Il Presidente Mahmoud Abbas e il Primo Ministro Mohammad Shtayyeh in Ramallah l’anno scorso.Credit: MOHAMAD TOROKMAN/ REUTERS

Dahlan, di una famiglia di rifugiati del villaggio di Hamama, tra Ashkelon e Ashdod, macchiò il suo passato di combattente per la libertà con il suo comportamento oppressivo come capo delle Forze di Sicurezza Preventiva a Gaza, l’accumulazione di ricchezza e il coinvolgimento in avventure militari e affaristiche in paesi stranieri .

Barghouti, del villaggio di Kobar, vicino a Ramallah, sta scontando l’ergastolo per una rivolta cominciata come spontanea e popolare ma poi presa in mano dalle forze delle organizzazioni armate palestinesi. Yasser Arafat, ispirandosi all’esempio dell’Algeria, vi vide un modo per rafforzare la propria posizione nei negoziati respingendo la critica popolare del suo regime. Barghouti, in contrasto con il suo carattere e le sue inclinazioni, rimase intrappolato nella competizione machista che si sviluppò tra i vari gruppi armati e tra questi e l’esercito israeliano.

Nelle scorse settimane, ho sentito la frase “hanno dirottato il nostro movimento”, da alcuni membri di Fatah che cercano di creare una lista per presentarsi contro il cartello del Presidente dell’Autorità Palestinese Mahmoud Abbas alle elezioni per il Consiglio Legislativo Palestinese che dovrebbero tenersi, se dio vuole, il 22 maggio. Prendono di mira il regime autoritario di intimidazione e di negazione del diritto di parola creato in Fatah e nelle istituzioni palestinesi da Abbas e dai suoi accoliti.

La maggior parte di coloro che sostengono queste posizioni appartengono alla generazione della prima intifada, che è stata messa da parte dalla generazione dei fondatori ritornati dall’esilio negli anni 90′. Costoro, chiamati i “Tunisini” o ” nuovi immigrati” dagli ex allievi dell’intifada, costituiscono ancora la maggioranza del Comitato Centrale di Fatah.

Ma questa non è la sola fonte di tensione che si è prodotta in altri movimenti di liberazione tra dirigenze “interne” e “esterne”. Il fatto è che tra i fedeli di Abbas nel comitato centrale ci sono alcuni “interni” con le loro storie di attivisti contro l’occupazione fin dalla giovinezza che si sono trasformati in uomini forti della repressione: Majed Faraj, capo dell’intelligence generale, che il pubblico palestinese chiama “l’uomo dell’America”; Hussein al- Sheik, noto come l'”uomo di Israele” per il suo ruolo di mediatore con le autorità israeliane e Jibril Rajoub che, nel suo ruolo di presidente della Associazione del Football Palestinese fornisce uno splendido esempio di abilità politica e desiderio di potere.

Dall’altra parte, c’è Nasser al-Kidwa, un “ritornato” che, in quanto nipote di Arafat può dire di avere Fatah nel sangue. Negli ultimi anni, però, è stato uno dei capi dei critici di Abbas e del presente sistema politico. Lo scorso giovedì ha confermato di essere coinvolto nella creazione della lista alternativa a quella formalmente di Fatah, in un tentativo di promuovere una via democratica ad una autentica strategia di liberazione.

Durante una conferenza on line all’università di Bir Zeit, ha detto “Se non ce la facciamo questa volta, dovremo abbandonare la politica. Per me personalmente, se dovessi sfuggire oggi alle mie responsabilità, vorrebbe dire che non avrò mai più nessun ruolo in politica in futuro.”

Poi ha pronunciato la frase che rivela la profondità della tragedia: “O facciamo quel che ci è richiesto, o ce ne andiamo. E’ abbastanza, non c’è altro che possiamo fare per il popolo palestinese.”

Traduzione a cura di Gabriella Rossetti

PalestinaCeL

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