
Fadwa Tuqan è considerata “la madre della poesia palestinese”, che ha fatto della sua arte una scelta politica e una modalità di espressione di genere.
Nacque a Nablus nel 1917 da una famiglia aristocratica e conservatrice. La sua infanzia fu triste a tal punto che, nella sua autobiografia, non mancano gli aneddoti legati al suo passato e al senso di inadeguatezza verso i suoi genitori e alle loro credenze e tradizioni così antiche. Il fratello Ibrahim (anch’egli poeta) fu il faro della sua vita, dal quale apprese l’arte della poesia.
Lottò molto per la sua libertà individuale che riacquistò grazie alle lotte di emancipazione femminile e alle disgrazie che nel 1948 si abbatterono su di lei (Nakba e morte del padre); Fadwa si gettò in uno sconforto senza fine ma allo stesso tempo riacquistò pienamente la libertà tanto cercata. A seguito della Nakba e dell’instaurazione di campi profughi, le difficoltà per le donne aumentarono in maniera esponenziale, tanto che divenne impossibile conservare una propria identità o mantenere in sicurezza la propria famiglia.
In quegli anni, Fadwa andò a studiare a Inghilterra, riuscendo finalmente ad emanciparsi sia da un punto di vista personale, sia culturale, anche se anche qui percepì con brutalità la sua identità nazionale negata.
Brutto tempo; e il nostro cielo è sempre coperto di nebbia.
Ma dì, di dove sei signorina?
Una Spagnola, forse?
– No, sono della Giordania.
– Scusami, della Giordania, dici?
Non capisco!
– Sono delle colline di Gerusalemme; della Patria della luce e del sole! – Oh, oh! Capisco; sei un’ebrea!
Ebrea?
Che pugnalata mi ferì al cuore! Una pugnalata tanto crudele e tanto selvaggia!”
Proprio per questo Fadwa decise di tornare in quella sua Patria massacrata ed esprimere tutta la rabbia ed il dolore del suo popolo.
Nella sua arte, si fa portavoce di due realtà: quella familiare, femminile, di identità repressa e mancata, e quella sociale, di Resistenza all’occupazione. Le sue poesie incoraggiano il popolo palestinese, sostengono le sue lotte e richiamano l’amore da sempre proibito. Fu interprete del dramma della sua terra e del suo popolo.
Mi basta *
“Mi basta morire sulla mia terra
essere sepolta in essa sciogliermi e svanire nel suo suolo
e poi germogliare come un fiore
colto con tenerezza da un bimbo del mio paese.
Mi basta rimanere nell’abbraccio del mio paese
per stargli vicino, stretta come una manciata
di polvere ramoscello di prato
un fiore”
*Francesca Maria Corrao, a cura di, In un mondo senza cielo – Antologia della poesia palestinese, Firenze, Giunti, 2015
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