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Il peso della pandemia sui lavoratori palestinesi

I lavoratori palestinesi svolgono un ruolo essenziale nell’economia israeliana, ma sono stati lasciati esposti al pericolo di COVID-19 senza alcun sostegno da parte delle autorità israeliane o dei loro stessi leader. La pandemia ha messo in luce la dura realtà della vita dei lavoratori sotto l’occupazione israeliana.

Dopo la prima scoperta all’inizio di marzo di sette casi COVID-19 nei territori palestinesi occupati, Israele ha rapidamente imposto un lockdown di sicurezza in Cisgiordania. Parallelamente, l’Autorità Palestinese (PA) ha dichiarato lo stato di emergenza, prorogato fino a giugno 2020.

La pandemia ha aggravato i problemi di un’economia già in deterioramento, caratterizzata da alti livelli di disoccupazione e dalla perdita di salari per le famiglie che lavorano, a causa delle restrizioni del blocco.

I lavoratori del settore edile di Israele sono una delle parti più colpite della società palestinese. Il sistematico, per decenni, non-sviluppo israeliano dei territori palestinesi occupati ha spinto in questo settore centinaia di migliaia di persone.

Questi lavoratori non vengono solo dalla Cisgiordania (e da Gaza prima dell’assedio), ma ci sono anche molti cittadini palestinesi di Israele e costituiscono una forza lavoro a buon mercato, prigioniera e in fondamentalmente disponibile per gli appaltatori e le imprese di costruzione israeliane. La loro esperienza della pandemia comprende molti degli aspetti chiave della vita palestinese all’ombra del dominio israeliano.

Occupazione e sfruttamento

Nel 2019, i palestinesi della Cisgiordania rappresentavano oltre un quinto della forza lavoro delle costruzioni in Israele di 300.000, e producevano circa i due terzi dell’apporto di $ 35 miliardi del settore all’economia israeliana. Ci sono inoltre più di 90.000 cittadini palestinesi di Israele che lavorano nell’edilizia.

Alcuni studi hanno rilevato un ampio divario retributivo tra i lavoratori palestinesi e i loro omologhi ebrei israeliani, che riflette la divisione del lavoro all’interno del settore stesso, dove gli ebrei israeliani occupano posizioni manageriali, ingegneristiche e di pianificazione, mentre i palestinesi e (sempre più) i lavoratori stranieri svolgono mansioni ad alta intensità di lavoro.

Le aziende israeliane traggono profitto dai bassi salari ai palestinesi per lavorare in condizioni non sicure. Nel 2018, Israele si è classificato al terzo posto tra i paesi OCSE per morti nel settore edile, di cui la stragrande maggioranza palestinesi (trentuno su trentotto: sedici dalla Cisgiordania e Gerusalemme est e quindici cittadini palestinesi di Israele ).

L’industria delle costruzioni è anche nota per la mancanza di chiari accordi contrattuali. Ciò consente ai datori di lavoro di eludere facilmente i propri obblighi, ivi comprese l’ assistenza sanitaria e l’indennità in caso di infortuni sul lavoro.

Per i lavoratori della Cisgiordania, Israele utilizza un sistema di permessi insidioso, simile al sistema dei pass sudafricano, per regolare la loro integrazione nel mercato del lavoro israeliano e per tenere sotto controllo i loro movimenti.

Solo coloro che hanno più di ventun anni, che sono sposati e possiedono una carta d’identità biometrica possono richiedere un permesso di lavoro. Le autorità rilasciano permessi nelle industrie in cui il lavoro palestinese non fa concorrenza al lavoro degli ebrei israeliani, e solo con l’approvazione dell’apparato di sicurezza israeliano

Ricchi guadagni

Nel 2019, mentre il settore delle costruzioni era in forte espansione, i funzionari israeliani hanno rilasciato un numero record di permessi, la maggior parte dei quali (65%) destinati ai lavoratori edili. Dei 141.000 palestinesi della Cisgiordania che lavoravano per datori di lavoro israeliani quell’anno, il 72% aveva i permessi. I datori di lavoro israeliani non possono “legalmente” assumere lavoratori senza permessi, ma spesso lo fanno, in ogni caso in condizioni di particolare sfruttamento.

Il sistema dei permessi, che lega i lavoratori palestinesi a un datore di lavoro specifico, offre ricchi guadagni per intermediari palestinesi e appaltatori israeliani che intascano circa 34 milioni di dollari all’anno attraverso il mercato nero delle autorizzazioni. Secondo stime prudenti della Banca di Israele, i lavoratori palestinesi hanno acquistato circa il 30 percento di tutti i permessi rilasciati nel 2019, al prezzo di $ 570 ciascuno.

Inoltre, Israele detrae l’imposta sul reddito e l’assicurazione sanitaria dai salari dei lavoratori palestinesi. Le autorità israeliane dovrebbero trasferire tali detrazioni all’Autorità Palestinese su base mensile. Tuttavia, sistematicamente intascano gran parte di queste tasse: tra il 2006 e il 2013, Israele ha trattenuto un totale di $ 180 milioni direttamente dai salari dei lavoratori e $ 59 milioni per le spese sanitarie.

Sulla scia della pandemia, abbiamo visto chiaramente quanto il lavoro palestinese sia essenziale nel settore delle costruzioni israeliano quando l’Associazione israeliana dei costruttori ha chiesto che il governo facilitasse il continuo ingresso della manodopera palestinese in Israele. L’Associazione ha lamentato che una carenza di lavoratori palestinesi poteva comportare perdite mensili di $ 2 miliardi e mettere a repentaglio l’occupazione di oltre 125.000 israeliani.

Lockdown

La strategia israeliana per frenare la diffusione di COVID-19 ha comportato un arresto quasi totale delle industrie non essenziali e l’imposizione di un blocco totale di sicurezza in Cisgiordania, il che significa ulteriori restrizioni al movimento della popolazione, all’accesso al lavoro e all’assistenza sanitaria. Mentre migliaia di lavoratori palestinesi hanno immediatamente perso il posto di lavoro, sono state messe in atto disposizioni speciali per l’ingresso continuo dei lavoratori in settori classificati come essenziali, come l’edilizia, l’agricoltura e la sanità.

A metà marzo, Israele e la AP avevano raggiunto un accordo che consentiva l’ingresso di 55.000 lavoratori palestinesi della Cisgiordania impiegati in questi settori, a condizione che non tornassero a casa per almeno un mese. Questo ha prodotto un aumento significativo dei 15.000 lavoratori della Cisgiordania che in precedenza erano stati autorizzati a rimanere in Israele durante la notte, presumibilmente in base a considerazioni di sicurezza.

Le autorità israeliane non hanno emesso linee guida chiare in merito alle direttive o agli standard sanitari in loco per alloggi e assistenza sanitaria adeguati. Per tutti gli effetti pratici, ai datori di lavoro è stata lasciata mano libera per sfruttare la dipendenza dei loro lavoratori in questi lavori. I lavoratori edili dovevano dormire nei loro posti (di lavoro) – ai lavoratori delle fabbriche delle zone industriali delle colonie è stato persino detto di dormire in frigoriferi vuoti! – e non è stata effettuata alcuna ispezione delle condizioni di lavoro. I lavoratori con sintomi di COVID-19 non hanno ricevuto test. In alcuni casi, i loro datori di lavoro li hanno semplicemente scaricati ai check points e li hanno lasciati a se stessi.

Lavoratori come capri espiatori

Dopo aver sperimentato questo palese disprezzo per i loro diritti e le loro vite, molti lavoratori palestinesi hanno iniziato a tornare a casa e il numero di coloro che lo hanno fatto è aumentato quando l’AP li ha esortati a scaricare gli strumenti di lavoro e a tornare in Cisgiordania. Tuttavia, nonostante abbia lanciato questi appelli, la stessa PA non ha organizzato test adeguati per i lavoratori e ha semplicemente chiesto loro di mettersi in quarantena.

I lavoratori tornavano in case affollate, mettendo a rischio se stessi e le loro famiglie. Di fatto, a parte i casi iniziali legati all’industria del turismo, la grande maggioranza dei casi in Cisgiordania (74 per cento) ha coinvolto operai edili impiegati in Israele o quelli nelle immediate vicinanze. La prima morte registrata di COVID-19 nei territori occupati è stata la madre di un lavoratore palestinese di Gerusalemme est, impiegato in una fabbrica della zona industriale di insediamento.

I lavoratori di ritorno hanno affrontato la denigrazione di essere considerati come portatori del virus. Nelle conferenze stampa quotidiane, i funzionari dell’AP assediati parlavano degli operai come di “vita senza freni” della Palestina, accusandoli di mettere in pericolo la vita delle persone. Eppure gli stessi funzionari hanno lasciato il potere occupante fuori dai guai per le proprie azioni. L’uso di tale retorica, presentando i lavoratori come un pericolo per la salute pubblica da controllare attraverso misure di sicurezza, ha avuto, prevedibilmente conseguenze letali, quando un agente di sicurezza palestinese ha sparato a un uomo mentre andava al lavoro.

Questi lavoratori non hanno i mezzi finanziari per resistere senza salario a un blocco a lungo termine e l’AP non ha fatto quasi nulla per aiutarli. L’AP e la Federazione generale palestinese dei sindacati (PGFTU) alla fine hanno istituito un esiguo fondo di $ 11 milioni per sostenere i lavoratori che hanno perso il lavoro, ma non hanno preso accordi specifici per coloro che erano impiegati in Israele. Ci sono stati anche i soliti problemi di trasparenza nella distribuzione dei fondi ufficiali.

Il Coordinatore (Al Monasiq)

La diminuzione del numero di lavoratori palestinesi ha inferto un duro colpo al settore delle costruzioni israeliano. Alla fine di aprile, rimanevano sul posto solo 15-17.000 operai edili palestinesi, che hanno portato all’arresto del lavoro in 9.000 su 22.000 cantieri attivi. Le perdite finanziarie israeliane, insieme all’incapacità dell’AP di sostenere questi lavoratori, hanno portato le parti a stipulare un accordo che consente a 67.000 lavoratori, principalmente nelle costruzioni, di rientrare in Israele e nei suoi insediamenti illegali in Cisgiordania. Questo a condizione che non sarebbero tornati a casa dal momento dell’ingresso il 3 maggio fino alla fine del Ramadan.

L’accordo limita il movimento dei lavoratori e affida ai contraenti israeliani il monitoraggio della loro posizione. Sfruttando appieno la situazione, Israele ha diffuso l’uso di un’app per telefono cellulare chiamata Al-Monasiq (“Il coordinatore”), che consente ai militari israeliani di accedere alla posizione, al microfono e alla videocamera di una persona, nonché a tutti i dati memorizzati. Sebbene in teoria non sia obbligatorio utilizzare l’app, in pratica i lavoratori hanno poca scelta, poiché è diventato lo strumento principale per richiedere le autorizzazioni e verificarne la validità.

Strutture di complicità

L’esperienza degli operai edili palestinesi dall’inizio dell’epidemia di COVID-19 non illustra solo la relazione coloniale (di Israele) con il lavoro palestinese. Sottolinea anche la dannosa traiettoria di sviluppo dell’AP (o la sua mancanza). Nel 2019, i palestinesi che lavoravano per i datori di lavoro israeliani costituivano quasi un quinto della forza lavoro in Cisgiordania e generavano il 14 % del PIL dell’AP.

L’apparato di sicurezza dell’Autorità Palestinese parla della priorità della sicurezza – principalmente di Israele – rispetto al sostegno a settori come la sanità, l’istruzione e l’agricoltura. Nel 2019, ad esempio, l’AP ha stanziato solo il 10 percento del proprio budget per l’assistenza sanitaria, mentre ha dedicato il 22 percento a rafforzare il proprio apparato di sicurezza.

In effetti, la pandemia è iniziata nel bel mezzo di uno sciopero dei medici palestinesi, che protestavano contro i bassi salari e lo stato spaventoso delle infrastrutture sanitarie nei territori occupati. C’era stato anche un precedente ciclo di scioperi degli insegnanti per salari e pensioni, organizzato al di fuori dell’ombrello ufficiale dell’Unione Generale degli Insegnanti Palestinesi. L’AP si è mossa per reprimere gli scioperi, sostenendo che erano contrari all’interesse nazionale.

La pandemia ha anche rivelato quanto poco sostegno i lavoratori palestinesi possono aspettarsi di ricevere dai movimenti sindacali ufficiali su entrambi i lati della Linea Verde. La federazione sindacale israeliana, l’Histadrut, è ben contenta di dedurre le quote associative di questi lavoratori direttamente dai loro salari. Tuttavia, la sua priorità è sempre quella di favorire lo sfruttamento del lavoro palestinese da parte di Israele. La federazione non ha nemmeno cercato di ricordare ai contraenti israeliani i loro obblighi in materia di salute e sicurezza dei lavoratori.

Anche se questo non è più di quanto ci si aspetterebbe dall’Histadrut, considerando la sua lunga storia di istituzione coloniale, la debolezza cronica della sua controparte palestinese, la PGFTU, è stata sorprendentemente evidente di fronte alla crisi. I lavoratori palestinesi della Cisgiordania non possono aderire a un sindacato di loro scelta e sono costretti a pagare le quote all’Histadrut. Il 50 percento delle commissioni riscosse dovrebbe essere trasferito alla PGFTU, che è ritenuta responsabile della fornitura di servizi ai lavoratori.

Questo sistema stabilisce una relazione di dipendenza finanziaria tra PGFTU e Histadrut e lascia i lavoratori palestinesi in una situazione molto precaria, senza un’organizzazione che difenda davvero i loro diritti o lotte per il miglioramento delle condizioni di lavoro.

Ricostruire la resistenza

Poiché è probabile che la situazione economica peggiori ulteriormente, aumenteranno le pressioni sui lavoratori palestinesi. Confische di terre, condizioni difficili all’interno dei campi profughi, bassi salari nel settore informale e livelli crescenti di disoccupazione significano che un numero crescente di lavoratori palestinesi avrà poche possibilità se non quella di cercare lavoro presso i datori di lavoro israeliani.

Questo sarà un momento cruciale per i palestinesi per iniziare a ricostruire strutture del lavoro efficaci, non impantanate nella logica della “normalizzazione” messa in moto dagli Accordi di Oslo, o nella pericolosa cultura del settarismo e del nepotismo cresciuta su quel terreno.

Sarà anche fondamentale abbattere le divisioni create da Oslo e dal suo seguito, che hanno creato barriere legali e fisiche tra la Cisgiordania e Gaza, i cittadini palestinesi di Israele e i rifugiati che vivono in esilio. Come dimostra la storia del settore edile, Israele sfrutta e discrimina i lavoratori palestinesi indipendentemente dalla loro posizione geografica o dai documenti di identità. Nessuno di noi può affermare di avere un progetto preciso per ricostruire le strutture di resistenza nel movimento operaio palestinese. Tuttavia, è possibile che l’attuale crisi possa essere il catalizzatore di cui abbiamo bisogno da tempo.

GLI AUTORI

Riya Al’sanah coordinatore di ricerca per Who Profits Research Center.

Rafeef Ziadah è docente nel dipartimento di politica alla SOAS, University of London.

Articolo pubblicato in Jacobin Magazine

Traduzione Alessandra Mecozzi da http://www.etun-palestine.org/site/2020/05/27/palestinian-workers-are-bearing-the-brunt-of-the-pandemic/

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